Paola Pilati, l’Espresso 19/7/2013, 19 luglio 2013
LASCIATE CHE I FRANCESI
Loro comprano, e noi no. Da loro c’è un grande campione nazionale, da noi tanti piccoli nani. Loro hanno un Bernard Arnault, noi tante famiglie molto individualiste. E via lamentando. Da quando Lvmh, il colosso francese del lusso creato dall’ex imprenditore edile Arnault ha sedotto la sesta generazione della famiglia Loro Piana con un assegno di 2 miliardi di euro, portando a Parigi l’80 per cento dell’azienda piemontese che ha legato la sua fama alla lane pregiate, è lutto nazionale. Si annunciano nuovi affronti («che fine farà Armani? E speriamo che Zegna non molli mai...»), si ridicolizza la nostra irrilevanza sulla scena internazionale. Persino le multinazionali tascabili, quelle aziende intermedie che sono i gioielli del made in Italy, vivono in nicchie troppo piccole e «sono una strategia valida per l’azienda, non per il paese», come ha scritto Alessandro Penati.
Cerchiamo di vederci un po’ più chiaro, dati alla mano e con l’aiuto di un Virgilio come Fulvio Coltorti, direttore emerito dell’area studi di Mediobanca (dopo averla guidata per decenni), che quelle multinazionali tascabili le ha analizzate per primo.
Dall’inizio del 2008 un centinaio di aziende italiane - dalla meccanica alle assicurazioni, dalla finanza all’energia - sono state vendute e la nuova proprietà ha base e testa pensante all’estero (dati Thomson Reuters). Un fenomeno che ci deve preoccupare o rallegrare? A leggere l’ultimo "paper" della Banca d’Italia su "Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi", uno dei nostri problemi è proprio uno scarso appeal per i capitali. Se in una economia aperta lo sviluppo si fa anche con gli investimenti dall’estero e se questi arrivano per far fare alle imprese un salto tecnologico, sono i benvenuti, peccato che languano. Coltorti cita gli Ide, gli investimenti esteri diretti: a fine 2012 gli investimenti a carattere permanente degli stranieri da noi ammontavano a 276 miliardi (a fronte di nostri attivi all’estero per 424 miliardi) mentre in Francia e Germania sono due-tre volte superiori; quelli in titoli di Stato, da cui si può rapidamente fuggire, ammontavano invece alla fine dello scorso anno a 686 miliardi. Scarsa fiducia, ma nessun pericolo di colonizzazione alle porte, dunque.
Certo, va detto che le acquisizioni diventano però sempre più mirate, e interessano i pezzi pregiati del made in Italy. E riguardano non soltanto le griffe della moda ma anche quelle del cibo, come la pasticceria milanese Cova, concupita da Prada e vinta da Lvmh, o Pernigotti, su cui è stata appena piantata la bandiera turca. E che lo shopping francese, quello di Lvmh ma anche del suo rivale Kering, guidato da François Pinault che ha da poco inglobato Pomellato, ha una allure da campagna napoleonica. «È un attacco al cuore del nostro sistema moda, perché comprano un pezzo importante del tessile biellese», si duole Carlo Pambianco, che ha l’osservatorio più famoso degli eventi economici del settore, e spiega:«Inoltre i francesi valutano le aziende con multipli altissimi. Un imprenditore mi confessava che se gli fosse arrivata una proposta con un moltiplicatore di 20-25 volte l’utile, come quello recapitato a Loro Piana, non ci avrebbe pensato due volte». L’Italia non è in vendita, come ha orgogliosamente proclamato Brunello Cucinelli, ma dipende sempre dal prezzo. E nessuno sa essere convincente come Arnault, che ha 7 miliardi in cassa - ricorda Coltorti - e che da uno shopping da 2 miliardi si riprende con meno di un anno di utili.
Ma all’Italia e al suo sistema industriale un padrone straniero fa bene o male? Il caso in questione è particolare: «I francesi comprano aziende sane, lasciano loro una forte autonomia, e continuano a usare i produttori e gli artigiani italiani», sottolinea Coltorti. «Ma in più garantiscono le munizioni che servono oggi a quel tipo di imprese per affrontare i costi altissimi della distribuzione». Per l’auto, per la meccanica, simili conglomerati hanno il nome di "global value chain", in quanto danno la possibilità a imprese medie di accedere a mercati più ampi partecipando a filiere produttive estese a livello mondiale. Il paper della Banca d’Italia le cita come lo schema vincente usato dai tedeschi e come una grande opportunità per molte imprese italiane. Il segreto è il controllo delle fasi a monte e a valle, dicono in Banca d’Italia, dove si acchiappa il valore aggiunto. Può valere anche per la moda, dove per un Armani che una sua catena del valore l’ha creata, ci sono decine di aziende che non riescono a fare il salto? Dovremmo perciò sperare che nasca un Arnault italiano?
Coltorti non ne è convinto: «Lvmh è un’eccezione che deriva dalla politica di lasciare le imprese conquistate sotto la guida dei conquistati (il modello degli antichi romani...). Ma proprio per questo non è facilmente replicabile e non credo che possa essere replicato da noi. Le nostre imprese nascono come progetti di vita dei fondatori e per questo vi sono difficoltà a concentrarle in entità di maggiore dimensione. Vi sono anche i problemi dei passaggi generazionali che possono portare alla disaffezione progressiva verso quei progetti di vita». Da noi 86 aziende su 100 fanno capo a una proprietà famigliare, e anche se la Germania ci supera (sono 90 su 100), noi ci distinguiamo per un altro record: quello della presenza della famiglia nella gestione. Nei due terzi dei casi è il clan a tenere le redini aziendali, contro il 25 per cento dei tedeschi. Questa chiusura nella rete familiare porta minore crescita di investimenti e maggiore paura del rischio. Morale, la sentenza di Bankitalia è netta: il 95 per cento delle nostre imprese non è in grado di comprare niente, e neppure è contendibile. Può solo dire sì a un bell’assegno, come molti prevedono che accadrà a tante aziende minori della moda di fronte all’offerta dei buyer cinesi che il governo di Pechino ha sparpagliato in Europa.
Anche il nostro "quarto capitalismo" è in pericolo? Anche le nostre multinazionali tascabili sono a rischio? Coltorti disegna una possibile via d’uscita: «A mio parere dobbiamo lavorare sui territori, le aree distrettuali e del quarto capitalismo; qui vanno istituiti enti capaci di disegnare quelle politiche di lungo periodo (e le relative azioni) che non sono alla portata dei piccoli imprenditori, affinché vengano superati i problemi della distribuzione internazionale, vengano forniti gli aiuti all’innovazione, vengano rivitalizzate le scuole tecniche, venga assicurata la formazione anche degli stessi imprenditori. Le nostre piccole imprese si fondano sulle reti; sono componenti naturali della loro crescita (e della loro resistenza), ma possono e debbono essere irrobustite». Perché, a dispetto di tutto, la vitalità del sistema c’è. Il migliaio di multinazionali tascabili accresce i suoi investimenti all’estero, e anche se molte aziende diventano prede per lo straniero, molte altre ne nascono: «L’Italia ha una capacità straordinaria di creare nuovi marchi del lusso», dice Coltorti: «Da Cucinelli a Stefano Ricci, basta guardare le vetrine sulla Quinta strada di New York. È questa la nostra speranza».