Alessandro Longo, l’Espresso 19/7/2013, 19 luglio 2013
DNA FAI DA TE
L’Italia sta perdendo il treno tecnologico verso la medicina del futuro. Quella che sfrutta test genetici, sempre più economici e completi, per la diagnosi e la cura di varie malattie. E che tra qualche anno aiuterà pure a prevederle e prevenirle con precisione. La colpa è del nostro handicap storico, lo stesso che ci vede cinquantesimi al mondo per innovazione (dopo Malta), secondo il World Economic Forum: scarsa diffusione delle tecnologie nei posti che contano, poche competenze informatiche di alto livello. «È la tecnologia infatti a sostenere ora lo sviluppo dei test genetici, macchine e software migliori per analizzare il Dna», dice a "l’Espresso" Bruno Dallapiccola, uno dei genetisti italiani più noti a livello internazionale e direttore scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. «Ma in Italia non abbiamo di fatto un’infrastruttura bio-informatica per l’analisi del Dna, né abbastanza personale formato per questo scopo, e dobbiamo poggiare su laboratori stranieri», aggiunge Ettore Capoluongo, docente di Biochimica clinica e Biologia molecolare clinica all’Università Cattolica di Roma.
Che i test genetici si trasformino in un fenomeno di massa sembra del resto ormai inevitabile. Dal punto di vista mediatico contribuisce parecchio la scelta dell’attrice Angelina Jolie di farsi asportare entrambi i seni per l’alto rischio rilevato di tumore. Sul piano economico, invece, incide un’altra notizia recente: la decisione della Corte Suprema americana di vietare i brevetti sul Dna umano. «È un semaforo verde che spingerà tutti noi ricercatori a elaborare nuovi e migliori test, sempre più economici. Eventuali brevetti li renderebbero troppo costosi», dice Harry Ostrer, genetista all’Albert Einstein College of Medicine a New York.
«I test genetici segnano l’arrivo, anche nella Sanità, di quella rivoluzione digitale che sta trasformando il mondo», riassume Adrian Lee docente al dipartimento di Biologia chimica e farmacologica dell’University of Pittsburgh Medical Center. Che è «uno dei più importanti sistemi sanitari senza scopo di lucro negli Stati Uniti ed è eccellenza mondiale nella tecnologia applicata alla Sanità. Vi ha speso l’equivalente di 250 milioni di euro nel 2012», dice Luca Gastaldi, degli Osservatori Ict del Politecnico di Milano.
È la tecnologia quindi l’anima dei nuovi test genetici, «basati su macchine da 100-500 mila euro in grado di leggere e poi decodificare i pezzi di un mosaico molto complesso: il nostro codice genetico», chiosa Dallapiccola.
«Ci sono tre tipi di tecnologie per queste finalità: MiSeq di Illumina, Ion Proton di Applied Biosystem (entrambe americane) e 4-5-4 del gruppo svizzero Roche», aggiunge Capoluongo, che è anche responsabile di Struttura semplice analisi ormonali del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma. «C’è un funzionamento comune: le macchine estraggono il Dna dal sangue, lo purificano, lo frammentano. Vi applicano tag (etichette) universali con il valore di codici univoci che permettono l’amplificazione e il sequenziamento del Dna». Termine tecnico che vuol dire che «di ogni frammento di un gene le macchine producono un certo numero di frammenti. Avrò quindi una serie di righe. Se il frammento ha mutazioni vedrò lettere del codice genetico che cambiano da una riga all’altra. E la mutazione può essere correlata a una malattia specifica», aggiunge Capoluongo.
«Le macchine però introducono errori nella lettura, con l’amplificazione». È un po’ come quando facciamo una foto con uno smartphone e poi zoomiamo: riusciamo a vedere meglio qualche dettaglio, ma l’immagine ne risente. «Per correggere gli errori delle macchine servono software dotati di algoritmi specifici», continua. È la seconda fase del test. «L’algoritmo compensa i limiti delle attuali macchine, che sono ancora perfette per la diagnosi di una malattia». Il software dà quindi il responso. Costo totale: «Oggi bastano mille dollari per un’analisi genetica, contro i 100 mila dollari di 10 anni fa. Ci aspettiamo che nei prossimi due-tre anni si faranno in una giornata con 100 euro», dice Dallapiccola.
Ecco perché i test diventano sempre più utilizzati, per una crescente gamma di scopi. «A noi servono per fare ricerche sul cancro e poi escogitare terapie per attaccarlo su quel particolare paziente, dove il male si riflette in uno specifico gene. Possiamo anche individuare il farmaco più efficace per quella persona», dice Lee. «Ma altri fanno i test anche per scoprire come si sta diffondendo un’infezione all’interno del proprio ospedale, da quale area a quale area si muove, e quindi controllarla, tracciando il batterio che ne è responsabile», aggiunge.
La democratizzazione dei test genetici sta portando anche al fai-da-te. «Sempre più persone mettono la propria saliva in una provetta e poi, dopo aver compilato un banale modulo via Web, la mandano a laboratori esteri che in due-tre settimane danno un’analisi genetica», sostiene Stefania Boccia, genetista docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Una della più famose aziende che offrono il servizio è la californiana 23AndMe, che ha tra i fondatori Anne Wojciki, poi diventata moglie di Sergey Brin, cofondatore di Google. I costi di questo supermercato del test genetico, sono ancora più popolari di quelli nelle strutture cliniche e ospedaliere. A giugno, 23AndMe ha ridotto a 99 dollari il costo del test, dai precedenti 300. Serve per predire il rischio di avere alcune malattie ereditarie, sapere la sensibilità a certi tipi di farmaci, l’albero genealogico e altro. «I test possono dirci anche quanto siamo capaci, su base genetica, di metabolizzare la caffeina, il latte. O le nostre probabilità di diventare obesi. Ad oggi non ci sono dati su quanti italiani se ne avvalgano, ma negli Usa siamo arrivati al 5 per cento della popolazione, secondo l’Health information national trends survey», afferma Boccia. Una moda. Che però ha anche risvolti da prendere molto sul serio, per assicurare un futuro alla Sanità nazionale.
«Servono tante risorse informatiche per sostenere il futuro della medicina basato sulla genetica», dice Lee. Molta memoria su disco per contenere le enormi quantità di dati generate da questi test. Super potenza di calcolo per l’analisi software. Banda ultra larga per trasferire i dati a scopo di analisi. I paesi e gli ospedali che non si doteranno di tutto questo avranno problemi».
Ecco, appunto. «In Italia non abbiamo grossi centri per questi test, presenti invece a Londra e in costruzione in Francia», dice Dallapiccola. «Da noi non ci sono infrastrutture bio-informatiche e mancano le figure professionali per l’analisi software dei dati genetici. Così, dopo averli ottenuti dalle nostre macchine, dobbiamo mandarli a laboratori esteri», si duole Capoluongo. Questo significa costi extra e una minore efficacia clinica (per i limiti dell’interazione tra i due soggetti distanti).
È un futuro notevole quello a cui siamo impreparati. «Nel 2020 finiranno gli studi di analisi sull’esoma, che contiene la parte codificante Dna dove si annidano la maggior parte delle malattie», dice Capoluongo. «Arriveranno inoltre macchine a nanopori che leggeranno il Dna senza bisogno di amplificazione e quindi senza introdurre errori». Allora davvero la medicina predittiva avrà piena cittadinanza. «Ora invece le stime di rischio per le malattie ereditarie sono ancora inaffidabili. Tanto che il responso cambia se ripeto il test anno dopo anno su una stessa persona. Perché nel frattempo è progredita la ricerca scientifica sulla cui base i dati del Dna sono interpretati», commenta Boccia. «I test predittivi hanno senso quindi per persone ad alto rischio per la propria storia clinica o familiare», aggiunge. «Ora posso predire poco, in un prossimo futuro si potrà molto di più», conferma Dallapiccola. Un futuro in cui non avere la tecnologia bio-informatica e le competenze per usarla si trasformerà in sudditanza medica verso i Paesi più evoluti. Gli unici che avranno potere di conoscenza sui geni dei propri e degli altrui cittadini.