Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 19 Venerdì calendario

QUASI GENEROSO IL GIUDIZIO DI

S&P –
Mentre l’Italia politica è assorbita dalle sorti giudiziarie di Berlusconi, la famosa società di rating americana Standard & Poor’s (S&P) declassa il debito del nostro governo a BBB, appena due gradini sopra il livello cosiddetto "junk", ovvero spazzatura. Il ministro dell’economia Saccomanni ha risposto per le rime, accusando S&P di basare le sue valutazioni su informazioni datate, che non tengono conto delle recenti misure pro crescita del governo. Lo spread si è alzato, ma non di molto. Sbaglia allora Standard & Poor’s? Oppure l’Italia rischia veramente di finire tra la spazzatura? E se così fosse, quali sarebbero le conseguenze?
La decisione di declassare - scrive S&P - nasce «da un peggioramento delle prospettive economiche italiane, dopo un decennio in cui la crescita reale è stata -0,04 per cento». L’Italia, quindi, non soffre di un problema di bilancio, ma di crescita. È la mancanza di crescita che mette a rischio la solvibilità del nostro debito. Il motivo è semplice. Una condizione necessaria per la solvibilità è che il rapporto debito-Prodotto interno lordo (Pil) non cresca all’infinito. Per prevenire questo rischio è necessario che il denominatore (Pil) cresca almeno tanto velocemente quanto il numeratore (debito). Se il Pil, invece di salire, scende, per mantenere costante il rapporto è necessario ridurre il debito attraverso un avanzo di bilancio. Ma quanto è plausibile un significativo avanzo quando siamo riusciti faticosamente a contenere il deficit al 3 per cento?
OVVIAMENTE UN’ANALISI di solvibilità non si può basare su semplici dati puntuali: occorre guardare alle prospettive di lungo periodo. Salvo drastici cambiamenti, però, le prospettive future saranno simili a quelle passate: crescita zero. Se l’Italia continua a questo ritmo, per mantenere il rapporto debito-Pil costante è necessario che il numeratore non cresca, ovvero che il bilancio pubblico sia in pareggio. Questo obiettivo è tanto più difficile, quanto più elevata è la spesa per interessi. Con un costo del nostro debito pari a 300 punti al di sopra dell’inflazione, per mantenere un bilancio in pareggio dovremmo avere un avanzo primario (ovvero al netto delle spese degli interessi) pari al 3,8 per cento del Pil. Se poi volessimo ricondurre in 20 anni il rapporto debito-Pil al livello degli accordi di Maastricht (60 per cento), dovremmo avere un avanzo del 5,5 per cento l’anno. Negli anni dello sforzo per entrare nell’euro l’Italia raggiunse picchi di avanzi primari superiori al 6 per cento. Ma si trattò di due anni. Poi scesero rapidamente, fino ad arrivare allo zero. Per impedire che il debito esploda dovremmo mantenere un 3,8 per cento in media. Questo significa che se in un anno di recessione l’avanzo primario è pari a zero, quello successivo deve essere pari a 7,6 per cento del Pil!
QUESTI SEMPLICI CALCOLI dimostrano che senza un po’ di crescita, il nostro debito è difficilmente sostenibile. Ma da dove viene la crescita? Cosa è cambiato in Italia per farci sperare che dopo dieci anni di crescita zero il paese si risvegli?
Per far ripartire la crescita Standard & Poor’s suggerisce una riforma fiscale, ma esattamente nella direzione opposta da quella presa dal governo. La società di rating si auspica un aumento delle imposte su proprietà (Imu) e consumo (Iva), ed una riduzione di quelle sul capitale (Irap) e sul lavoro (Irpef). Contemporaneamente vorrebbe una riduzione delle spese correnti a favore di quelle di investimento.
Data la differenza tra auspici di S&P e proposte del governo, non stupisce che l’agenzia pronostichi una probabilità superiore al 33 per cento di un ulteriore declassamento dell’Italia. Questo declassamento potrebbe far alzare i tassi, innescando per l’Italia una spirale negativa: alti tassi-alto deficit, alto deficit-alti tassi. È questa possibilità che giustamente teme il ministro Saccomanni. Per esorcizzarla, però, non basta attaccare S&P: occorre seguirne i consigli, con una riforma sia dell’imposizione fiscale che della spesa, con vendite di patrimonio pubblico, e riforme strutturali del mercato del lavoro e dei servizi. Ma quanto sono probabili queste riforme? Viene da dire che S&P è stata quasi generosa.