Pietro Del Re, la Repubblica 19/7/2013, 19 luglio 2013
MAORI L’ULTIMA BATTAGLIA PER LE ONDE RADIO
Dopo il diritto alla pesca di alcuni rari molluschi, i Maori, i più antichi abitanti della Nuova Zelanda, esigono che le autorità di Wellington riconoscano loro il possesso dell’etere che avvolge l’arcipelago. Etere inteso come onde radio, di cui le tribù autoctone rivendicano la proprietà, ma che il governo ha messo all’asta al prezzo di circa 300 milioni di dollari. Per perorare la loro richiesta, i Maori si avvalgono di un antico trattato firmato dai loro antenati e dagli ex coloni britannici, che garantiva ai nativi il dominio e l’usufrutto delle risorse del luogo. Risorse in senso lato, sostengono oggi le tribù dell’isola, quindi anche dell’intero spettro delle onde elettromagnetiche.
Ma questa pretesa, controbatte il governo, presenta un vulnus non indifferente: l’antico patto, che fu stipulato nel 1840, precedette di diverse decadi l’invenzione della radio, come dell’idea stessa che nell’aere potessero navigare onde corte o lunghe che fossero. Certo, hanno risposto i Maori, ma il patto fu scritto proprio in previsione delle future scoperte legate alla modernità, poiché nessuna particolare “risorsa” fu esentata dall’elenco della disponibilità ed eventuale fruizione. Neanche l’ossigeno, l’azoto e l’anidride carbonica di cui è composta l’atmosfera.
Questa polemica, oltre a risvegliare il divertito sarcasmo della stampa anglosassone (ieri, ne scriveva il Wall Street Journal)
rischia di ritardare lo sviluppo della tecnologia 4G, necessaria alla crescente domanda dei neozelandesi per quegli smartphone sempre più veloci e performanti. Il governo di Wellington aveva previsto di far partire l’asta il prossimo autunno. Troppo presto per i Maori, che vogliono adesso sapere chi userà il “loro” etere, per quali scopi precipui e quanto entrerà nelle casse dello Stato. Soprattutto, gli aborigeni chiedono che parte delle frequenze radio vengano messe a loro disposizione.
Per molti neozelandesi, il trattato di Waitangi è importante quanto la Dichiarazione d’Indipendenza per gli americani o la Costituzione per noi italiani. Quella Carta stabilì, una volta per tutte, nel bene e nel male, i rapporti tra gli invasori europei e le tribù Maori, impedendo quelle sanguinose rivolte, sedate da altrettanto sanguinose repressioni, che hanno altrove costellato la storia dell’Impero britannico. Tuttavia, un quel trattato c’è un passaggio alquanto sibillino: pur garantendo ai Maori il del “taonga”, ossia di tutto ciò che sull’isola è prezioso, in nessun capitolo è specificato in cosa consista questo tesoro. Secondo i Maori nostri contemporanei sono “taonga” anche le frequenze radio. Per i ministri di Wellington, non è così.
Per fortuna loro, però, i Maori si sono costituiti una loro forza politica, piccola ma determinante. Quanto meno per le sorti del governo in carica, la cui tenuta dipende anche dai voti del Maori party, forte dei circa 565mila autoctoni che vivono in Nuova Zelanda (il 10 per cento della popolazione dell’arcipelago). Quindi, l’amministrazione del premier John Key è costretta a tenerseli buoni, e a cercare di non irritare la suscettibilità di questa fetta di neozelandesi che tradizionalmente è meno istruita e più povera delle altre.
Secondo l’avvocato Matthew Palmer, grande esperto del trattato di Waitangi, basterebbe che i Maori si rivolgessero alla commissione nata al fine di districare questo tipo di cause per ritardare di almeno un anno la messa all’asta delle frequenze radio. Ora, i leader Maori stanno proprio in queste ore valutando se rivolgersi o meno al cosiddetto Tribunale Waitangi, e chiedere che vengono riconosciuti i loro diritti in questa questione di lana caprina.
E’ vero, un’eventuale sentenza del Tribunale a favore dei Maori non ha potere vincolante nei confronti delle decisioni delle autorità di Wellington. Ma il governo non potrebbe ignorarla.