Federico Rampini, la Repubblica 19/7/2013, 19 luglio 2013
LA RESA DEGLI OGM
Il segnale più chiaro l’ho ricevuto dal mio supermercato. Whole Foods, a Columbus Circle, nel seminterrato sotto il grattacielo di Cnn TimeWarner. Da mesi ha lanciato una campagna contro gli organismi geneticamente modificati (Ogm). All’insegna della trasparenza, e per restituire al consumatore la piena sovranità nelle sue scelte. Dunque, non è una messa al bando vera e propria, ma una campagna-verità: le etichette indicano in bella evidenza quando in un alimento sono presenti degli ingredienti che contengono Ogm. Sembra un piccolo passo, invece è una rivoluzione. Per capirlo bisogna unire questo segnale ad altre due novità. Una, è la decisione del colosso Usa Monsanto — la regina globale degli Ogm — di rinunciare a chiedere altre autorizzazioni in Europa per allargare i raccolti autorizzati a usare sementi manipolate geneticamente (unica eccezione quella relativa al mais Mon810: per l’appunto proprio quello la cui coltivazione viene vietata in questi giorni, con apposito decreto, in Italia).
L’altra novità è l’iniziativa di diversi Stati Usa di imporre per legge l’etichettatura obbligatoria. Fino a non molto tempo fa, per l’Agrobusiness americano iniziative come quella di Whole Foods, o di Stati come il Maine, Connecticut e Vermont, erano l’equivalente di una dichiarazione di guerra.
La Monsanto, i suoi lobbisti, i parlamentari Usa che servono i suoi interessi, sarebbero stati pronti a boicottare perfino il grande negoziato Usa-Ue sulle liberalizzazioni (Transatlantic Investment and Trade Partnership), se gli europei si fossero intestarditi a inserirvi delle clausole di informazione obbligatoria sugli Ogm nelle etichette dei prodotti di consumo. Ora è in casa propria, sul mercato degli Stati Uniti, che la Monsanto perde colpi sull’etichettatura obbligatoria. La sua rinuncia a chiedere nuove autorizzazioni nel settore agricolo europeo, è l’ultimo segnale di quello che assomiglia all’inizio di una ritirata strategica.
La campagna di Whole Foods colpisce al cuore gli Ogm, senza dover passare attraverso un divieto puro e semplice. Il protagonista di questa offensiva è significativo. Whole Foods è il gigante della grande distribuzione “bio” negli Stati Uniti. Le due città dove ha avuto il massimo successo, sono quelle con la più forte concentrazione di élite salutiste: New York e San Francisco. Qui a Manhattan il suo ipermercato più grande, a Union Square, è invaso a tutte le ore da una folla di giovani, studenti, turisti. A San Francisco il punto vendita più celebre è sulla California Avenue vicino al capolinea dei tram a cremagliera. Icona del salutismo chic, progressista e benestante, Whole Foods ha una proprietà capitalistica molto tradizionale. Il suo chief executive è un repubblicano militante. Il suo quartier generale è in Texas, la roccaforte della destra Usa. Ma l’ideologia è una cosa, il business un’altra. Whole Foods ha successo perché ha capito la forza del suo messaggio, una versione americana dello Slow Food: mangiare sano per stare bene, curare le filiere, garantire la genuinità del prodotto, mettere al bando pesticidi e insetticidi e ogni altro inquinamento chimico dei raccolti. È la filosofia “organic”, che conquista i ceti medioalti, le nuove generazioni, gli americani in lotta contro l’obesità e in fuga dal junk-food.
Whole Foods ha capito che impugnare la bandiera della trasparenza sugli Ogm rafforza la sua credibilità presso questo segmento di clientela ad alto potere d’acquisto, bene informata, diffidente verso l’Agrobusiness. Da qualche settimana, quando vado a fare la spesa perfino il sacchetto di carta riciclabile in cui i cassieri di Whole Foods mi mettono frutta e verdura, ha stampato sopra uno slogan colorato che pubblicizza la nuova iniziativa sugli Ogm. L’informazione e` un’arma implacabile, e Monsanto lo sa. Una volta che indichi con chiarezza al cliente dell’ipermercato la presenza di Ogm su un prodotto, sale la probabilità che l’acquirente scelga l’alternativa “senza” anche se costa di più.
La conseguenza è ineluttabile.
Fino a qualche anno fa la Monsanto pensava di poter mobilitare la Casa Bianca (ai tempi di George Bush) e il Congresso di Washington, per piegare le obiezioni degli europei, o di alcune forze radicali nelle nazioni emergenti (vedi l’India dove la battaglia anti-Ogm si rivolge anzitutto agli agricoltori). Ora è negli Stati Uniti che l’industria agroalimentare comincia a battere in ritirata: silenziosamente, produttori grandi e piccoli hanno ritirato dal commercio alcuni alimenti con Ogm per sostituirli con alternative “convenzionali”.
Connecticut, Vermont e Maine sono tre Stati piccoli e politicamente progressisti. Ma le loro iniziative legislative per rendere obbligatoria l’etichettatura trasparente sugli Ogm, stanno facendo scuola. 20 altri Stati Usa hanno avviato l’iter per l’introduzione di normative analoghe. Tra gli agricoltori americani, che sono i clienti della Monsanto poiché ne acquistano le sementi, è iniziata la corsa a procurarsi le nuove certificazioni di qualità “non-Ogm”. Lo stesso vale per le aziende grandi e piccole di prodotti alimentari.
Un caso tipico è quello della ThinkThin (traduzione: «pensa magro»), l’azienda che produce merendine salutiste per sportivi col marchio Crunch. Per quel tipo di prodotto, è essenziale avere accesso alla rete distributiva di Whole Foods. Ma per vendere meglio sugli scaffali dei supermercati Whole Foods, conviene poter esibire il certificato che garantisce l’assenza di Ogm dagli ingredienti delle merendine Crunch: che contengono cereali integrali, zucchero, noci e nocciole. E così la chief executive di Crunch, Lizanne Falsetto, ha passato ai raggi X la lista dei suoi fornitori, esigendo che fossero a prova di Ogm, poi si è messa in coda per i controlli delle società di certificazione come la Non-Gmo Project di Megan Westgate, che rilasciano il marchio di qualità“Ogm-free” per garantirne l’assenza. Funziona in questo modo la catena virtuosa del contagio, un movimento che si sta amplificando, e costringe sulla difensiva Monsanto dove sel’aspettava meno: a casa sua. La “Non-Gmo Project” sta ricevendo richieste di certificati al ritmo di 300 al mese.
Questa dinamica di mercato si riflette fedelmente sui prezzi delle materie prime più diffuse. Una commodity agricola di base come la soya, due anni fa si vendeva con un sovrapprezzo di un dollaro a bushel per la qualità senza gli Ogm; oggi quel sovrapprezzo è raddoppiato a due dollari, trascinato al rialzo dall’aumento della domanda di consumo per il prodotto non manipolato geneticamente. Per il mais il sovrapprezzo è balzato da 10 a 75 centesimi. Anche qui la logica della domanda e dell’offerta è implacabile e gioca contro la Monsanto: più cresce l’esercito dei consumatori che vogliono la versione senza Ogm, più agli agricoltori conviene coltivare quella perché si vende ad un prezzo migliore.
Che questo cominci ad accadere negli Stati Uniti è clamoroso. L’avanzata della Monsanto e di altri colossi delle manipolazioni genetiche era stata implacabile fino in tempi recenti, al punto che l’anno scorso circa il 90% delle quattro maggiori derrate agricola Usa — mais, soya, canola e barbabietola da zucchero — erano il prodotto di sementi con gli Ogm. E sulla minoranza di coltivazioni convenzionali (certificate senza Ogm), quasi tutte servivano per rifornire mercati di esportazione “prevenuti”, come quello europeo. Adesso, un altro moltiplicatore del cambiamento sta venendo dal fronte delle carni. Anche gli allevatori sono sotto pressione per fornire bistecche di manzo “libere” da Ogm: a loro volta chiedono foraggi e alimenti per il bestiame con quella certificazione di qualità.
Monsanto scopre di avere combattuto per molti anni la sua battaglia su un terreno non decisivo: la sua strategia consisteva nel produrre un fuoco di sbarramento di studi scientifici (spacciati come indipendenti, quasi sempre da lei finanziati) per dimostrare l’insussistenza di danni alla salute derivanti da Ogm. Ma questa è diventata una battaglia quasi marginale, di fronte al verdetto di una fascia di consumatori. Che adottano, istintivamente, un loro “principio di precauzione”. Per ora Monsanto può consolarsi con il fatto che la rivolta anti-Ogm è un fenomeno tipico dei consumatori più ricchi e avveduti sui mercati occidentali. Viceversa l’America latina continua ad essere uno sbocco eccellente per le sementi manipolate. Ma in un altro gigante emergente, la Cina, la Monsanto ha cominciato a incontrare difficoltà e resistenze. Un segnale in più, che l’atmosfera sta cambiando.