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 2013  luglio 19 Venerdì calendario

IL RITO INUTILE (DA PRIMA REPUBBLICA) DELLA SFIDUCIA INDIVIDUALE

La sfiducia individuale non è altro che una bandierina piantata sul terreno di battaglia, e più spesso al di qua delle linee nemiche. L’unica volta in cui ebbe esito positivo fu nel 1995, quando lo splendidamente ampolloso ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, si mise contro il presidente del Consiglio (Lamberto Dini) e quello della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro), oltre all’intero Pds, perché interpretava il diritto in forme non creative e si ostinava a spedire ispezioni alla santa procura di Milano. Andò a buon fine per un semplice ed eccezionale motivo: la mozione di sfiducia fu sottoscritta dalla maggioranza anziché dall’opposizione. Il povero Mancuso fu sfiduciato da 173 senatori (soltanto tre contrari) poiché il Polo delle Libertà abbandonò l’aula ed implicitamente la maggioranza. Il dibattito plurimensile che precedette il voto fu focoso perché, dopo le esperienze con Giovanni Conso e Alfredo Biondi, sembrava che la magistratura avesse finalmente ottenuto un ministro meno bellicoso. Macché, il centrodestra si aggrappò a Mancuso e, oltre che della ciccia, si discusse del metodo: la sfiducia individuale non è prevista dalla Costituzione, e sul punto si battagliò.

In realtà di sfiducia individuale si parla da quasi un trentennio. Il primo a subirla - solito record - fu Giulio Andreotti nel 1984. C’era il governo Craxi e il partito comunista promosse l’azione sui basi piuttosto alte quanto generiche, e a loro care da tempo e per molti anni ancora: la questione morale. Era impossibile, si diceva, presentare al mondo un governo che avesse per reggente degli Esteri un uomo implicato in tanti scandali, a cominciare da quelli legati a Michele Sindona. Eccola la classica bandierina. Il modo più semplice di marcare una differenza in modo indolore e con qualche sospetto di demagogia. Nell’occasione, raccontano i manuali, qualche astensione piovuta dai miglioristi, cioè l’ala destra del Pci (guidata da Giorgio Napolitano) contribuì al salvataggio di Andreotti. Era il sistema ovvio per dimostrare attenzione a un governo retto dall’amico Bettino Craxi, e magari per indebolire il suo avversario, Ciriaco De Mita. Di queste raffinate tattiche se ne sono viste molte meno nella Seconda repubblica, e forse alla categoria appartiene la scelta dei renziani di smarcarsi, e facilmente, poiché tanto Angelino Alfano è già salvo.

Dal 1984 in poi, la sfiducia individuale divenne prassi e quella che si affronta oggi a Palazzo Madama è la diciannovesima. Ma siccome non si accontentò della prassi, Mancuso fece ricorso alla Corte costituzionale che gli diede torto. Oggi, dunque, sostenere l’incostituzionalità della manovra ha un senso in dottrina, ma nessun effetto pratico. Le mozioni si discutono con grande frequenza e pari perdita di tempo. Per tornare alla Prima repubblica, dopo Andreotti divenne quasi un passatempo. 1986: tocca al ministro della Pubblica Istruzione, Franca Falcucci, per le risse cumulative sull’ora di religione, la revisione dei programmi, le proteste degli insegnanti. 1989: è la volta del ministro della Sanità, Carlo Donat Cattin, colpevole di aver mandato ispettori alla clinica Mangiagalli sospettata di pratiche abortive illegali. 1990: ecco Antonio Gava, ministro dell’Interno messo sotto accusa per una serie di violenze (e omicidi) in campagna elettorale. E avanti così: Guido Carli (Tesoro, 1991) per l’intenzione di risanare i conti intaccando il welfare, Giovanni Prandini (Lavori pubblici, 1992) per una serie complicatissima di vicende, Giovanni Goria (Finanze, 1992) perché non aveva detto la verità, si sostenne, sull’interessamento a lui della magistratura: era l’alba di Mani pulite. Una sequela sfiancante di assalti falliti dell’opposizione, quasi sempre il Pci (poi Pds) e i Verdi, qualche volta persino il Movimento sociale, che ebbe un ruolo nella mozione di sfiducia ad Andreotti con Araldo di Crollalanza, ministro dei Lavori pubblici sotto il fascismo e gran capo della destra pugliese per l’intero dopoguerra.

Poi arrivò la Seconda repubblica, con il suo carico di isterico e fanciullesco approccio alla vita politica. Se la cacciata di Mancuso ebbe un’epica, tutte le sfiducie successive si sono risolte in balletti tristarelli. Indimenticabile è stata la mozione (2010) contro il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, imputato di favoreggiamento in crollo di muri pompeiani, crolli peraltro registrati con altrettanta abbondanza prima e dopo di Bondi. E invece è stata dimenticata, colpevolmente, la sfiducia chiesta da Lega e Udeur (cioè Clemente Mastella) per il ministro dell’Interno, Giorgio Napolitano, e quello della Giustizia, Giovanni Maria Flick, già allora accusati di trattativa, nella circostanza perché si conciliasse la fine della latitanza di Licio Gelli e la sua esigenza di non andare in prigione. Regolarmente si va alla Camera o al Senato per assistere a un giallo senza morto e senza colpevole, giusto per vedere se c’è una scena passabile. Ci siamo andati per Claudio Scajola, Pietro Lunardi, Saverio Romano e ci siamo andati anche durante il governo dei tecnici di Mario Monti per la sfiducia a Elsa Fornero (ministro della Disoccupazione, disse Alessandra Mussolini). Ci si andrà anche oggi, se proprio c’è tempo da perdere.