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 2013  luglio 18 Giovedì calendario

LA LEGGENDA DI DON SALVATORE IL LIGRESTI CHE MI PIACE

La moda giudiziaria ha inau­gurato un nuovo filone: l’arresto in formato familiare. Si prende una famiglia intera e la si sbatte dentro in attesa di giudi­zio. Con il tempo e con la paglia maturano anche le nespole, figu­riamoci se non maturano le con­fessioni. Ne sa qualcosa Salvatore Ligresti - nome noto - che già nel lontano 1992 fu fatto accomodare a San Vittore, carcere milanese, per una storia di tangenti. In que­gli anni usava così: l’imprendito­re versava miliardi ai partiti e que­sti ricambiavano la cortesia asse­gnandogli appalti redditizi. Gli affari sono affa­ri, pecunia non olet, e i politici in­cassavano. Le imprese prospera­vano e i cittadini pagavano di ta­sca loro. E poi c’è chi rimpiange la Milano da bere... La memoria a volte combina brutti scherzi.
Sia come sia, Ligresti andò in galera e ci rimase quattro mesi senza dire una parola, come si conviene a un siciliano verace, quale lui è, essendo nato a Pater­nò nel 1932. Ora non è tornato a San Vittore. Data l’età, 81 suona­ti, pur non essendo pien de ma­làn, gli spettano gli arresti domi­ciliari. Sorte diversa è toccata ai fi­gli. Jonella, pupilla di papà, amaz­zone di qualche talento, era in va­canza in Sardegna e lì è stata arre­stata e trasferita nel carcere di Cagliari. Giulia era qui, nel capoluo­go lombardo, ed è finita nella pri­gione cittadina. All’appello ne manca uno, il maschio, Gioac­chino Paolo, che è in Svizzera, quindi ricercato e in procinto - si vocifera - di costituirsi.
Con tutta la famigliola, anche alcuni dirigenti del gruppo sono stati arrestati. Una «strage» dal­la quale si è salvata soltanto la si­gnora Antonietta Susini, detta Bambi, consorte dell’ingegner Salvatore, che non ricopriva ruo­li nelle aziende controllate dal marito. Quali reati sono attribui­ti al «clan»? Roba finanziaria. Bi­lanci alterati, quattrini (centina­ia di milioni) passati in cavalle­ria. Ovviamente, non ci adden­triamo nelle questioni giudizia­rie, dato che non conosciamo i dettagli e, anche se li conoscessi­mo, non ci capiremmo ugual­mente un tubo, poiché la mate­ria è ostica perfino ai magistrati, immaginate a noi.
Ciò che sorprende è il ricorso alla carcerazione preventiva in massa: tante persone private della libertà prima ancora che si­ano terminate le indagini.
Conosciamo la spiegazione tecnica: pericolo di fuga, pericolo di inquinamento delle prove, possibilità che i reati vengano reiterati. Ma se i fatti criminosi sono stati commessi anni fa, for­se i signori Ligresti hanno già provveduto a confondere le ac­que; difficile inoltre che continuino a delinquere, visto che per l’accusa il denaro è già stato sottratto; e se proprio avessero voluto fuggire avrebbero taglia­to la corda da un pezzo.
Non siamo avvezzi a percorre­re le vie tortuose della giustizia e ci arrendiamo alla logica dei Pm, cui va la nostra stima, se non altro perché essi ci terroriz­zano anche in effigie. Occorre sottolineare che il capostipite, l’ingegnere, è un personaggio mitologico che ha ispirato varie leggende. Per raccontarlo biso­gna prescindere dalla realtà do­cumentata e attenersi ai «si di­ce». Per esempio, si mormora che egli fosse figlio di un bene­stante, pertanto non avrebbe avuto problemi a farsi pagare gli studi classici dal padre e l’uni­versità a Palermo, biennio di in­gegneria. Superato il quale, gli fu offerta l’opportunità di com­pletare il corso in un ateneo del Nord, più qualificato. Salvatore scelse quello di Padova, ancora oggi considerato il migliore d’Italia in campo scientifico, e qui si laureò. Inutile dirlo: bril­lantemente.
Poi traslocò a Milano che, ne­gli anni Cinquanta, si preparava al boom economico. Ligresti, con cui spesso chiacchieravo quando abitavamo nello stesso edificio (costruito da lui, manco a dirlo), mi confidò le sue tribolazioni all’inizio di carriera. Il gua­io è che non disponeva di capita­li a sufficienza per buttarsi a ca­pofitto nel business. Non si de­moralizzò. Si rivolse a una ban­ca e nel giro di qualche mese fe­ce il primo colpo, progettando un grande garage. Guadagnò pa­recchi denari. E da lì cominciò la sua ascesa, rapida e inarrestabi­le. Il giovin professionista si segnalò negli ambienti che conta­no, ai quali si avvicinò e da cui non si allontanò più.
I suoi interlocutori erano tipi come Enrico Cuccia, per citarne uno, siciliano come lui. Un ca­so? Probabilmente sì. Ma que­sto bastò ad alimentare le voci: i siculi si intendono subito, parla­no lo stesso linguaggio scarno e badano al sodo. Ligresti, per far­la breve, non tardò a raggiunge­re le vette dell’Olimpo capitali­stico. Ogni palazzo che si costruiva a Milano o era suo o non era importante. Statura bassa, intel­ligenza alta, astuzia altissima, l’ingegnere era guardato con ammirazione e invidia dai nota­bili milanesi. Essendo molto li­quido, acquistò partecipazioni nelle società più quotate: Medio­banca, Pirelli, Corriere della Se­ra e similari.
Per tacere delle assi­curazioni, dove poi è inciampa­to dando luogo al­le sue ultime di­sgrazie in via di drammatico sviluppo.
Stando sempre alla leggenda, cui si ispirano i biografi degli uo­mini che hanno compiuto mira­coli (e birichinate) in campo eco­nomico, Ligresti nel 1981 ebbe una grana pazzesca in casa. La moglie Bambi fu rapita. I sequestratori chiesero miliardi per rila­sciarla. Si ignora se il marito ab­bia intavolato una trattativa con loro, sta di fatto che un mese più tardi la moglie tornò a casa in per­fetta forma. Non vi è certezza, ma pare che egli abbia sborsato 600 milioni di lire, che i percettori, pe­rò, non ebbero modo di godersi. Sempre secondo la leggenda, e sottolineiamo leggenda, essi in­fatti non camparono a lungo: uno dopo l’altro morirono. Effet­to di una maledizione celeste? Circostanze casuali? Malattie? Mistero. Non un solo bandito, si sussurra, riuscì a invecchiare.
Di fronte alle avversità della vi­ta, Salvatore non è mai indietreg­giato. Abbiamo rammentato il suo arresto nel 1992 nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite. Pat­teggiò e scontò la pena, due anni e rotti, ai servizi sociali. Nel frattempo le sue aziende zoppicava­no. Niente paura. Tornato die­tro la scrivania, egli le risollevò alla solita maniera. Con corag­gio. Fin troppo. Forse sconfinan­do nella temerarietà, Ligresti riallacciò i rapporti con la finan­za, li rinsaldò, si impegnò nel set­tore assicurativo e del cemento. L’impero sembrava indistrutti­bile e destinato ad arricchirsi col supporto dei figli.
A Jonella fu conferita la laurea honoris causa dall’Università di Torino per meriti scientifici ac­quisiti nella gestione delle com­pagnie assicurative. Sul più bel­lo, quando cioè la cerimonia, do­po la lectio magistralis, si avvia­va alla conclusione, giunse la no­tizia funesta: il ministro Fabio Mussi (comunistissimo) aveva annullato il valore legale del di­ploma. Una botta così avrebbe stordito un toro. Non la famiglia Ligresti, che la assorbì senza scomporsi. Stile siciliano.
Per digerire l’amaro boccone, Salvatore comprò una tenuta in Toscana dove si produce un vi­no eccezionale, che una sera ci fece assaggiare apparecchian­do un tavolo di mescita in reda­zione. Degustazione indimenti­cabile. Mentre scriviamo, ci rife­riscono che ieri mattina, quan­do gli hanno notificato l’arresto, l’ingegnere non ha fatto una pie­ga. Se la caverà ancora.