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 2013  luglio 18 Giovedì calendario

QUEGLI ILLUSI SCONFITTI AL TAVOLO DELLA MORTE

Spararsi un colpo in testa o appendersi il collo a una trave è un classico del tappeto verde. Quanti romanzi abbiamo sugli scaffali che ce lo raccontano. Dai casinò aristocratici della riviera francese alle cascine della malora fenogliana, dai racconti di Landolfi a Dostoevskji, è sempre la morte a vincere l’ultima mano quando le carte si prendono tutto. Debito di gioco debito d’onore, si dice dalla notte dei tempi. Chi non riesce a saldare le perdite con il denaro è pronto a offrire la propria vita in ultima istanza. E’ la regola. Il codice non scritto che ha sempre governato l’universo dei dannati del gioco, da quando gli dei hanno fatto capire all’uomo che ci si poteva divertire parecchio affidandosi ai capricci del caso. I genetisti han scoperto che il tarlo è scritto nei geni come le malattie ereditarie. Ma non basta il dna a spiegare la febbre dell’azzardo. E nemmeno la tirannia di qualche vizio oscuro rispetto alla virtù condivisa. Uomini serissimi, intellettuali raffinati, contadini morigerati, scrittori, artisti, sono davvero troppi e vari i membri di questa schiatta dannata nel corso dei secoli, in ogni civiltà, per poter giudicare il fenomeno con i semplici occhiali della morale comune.

Persino i germani di Tacito, popolo probo, onesto, leale, modello di virtù per la corrotta casta senatoriale romana, cadevano nella trappola. Narra lo storico che quei guerrieri indomiti, di tanto in tanto, chissà perché, si lasciavano prendere dal demone dei dadi. E giocavano forsennati fino a perdere ogni avere, gli armenti, le terre, le armi, le vesti. E quando non restava più nulla, offrivano figli e mogli in schiavitù. E se non bastava ancora, persino la propria libertà. Perché il giocatore, il vero giocatore, che non è mai ragioniere, né investitore, sa che alla sua partita non può esserci una fine. Non gli interessa vincere, arricchirsi con una mano fortunata per incrementare il patrimonio, l’obiettivo è giocare finchè restano fiches, finchè riesce ad aggrapparsi alla speranza, finchè ha coraggio nell’anima. In palio non c’è la posta. Ma l’essenza stessa del gioco che è una sfida infinita contro ogni certezza.

La matematica, col calcolo delle probabilità, stabilisce con certezza che prima o poi si perde. Non importa. Il gioco non è attività né ragionevole né razionale. Quel che conta è giocare. Sfidare il limite, rilanciare, bluffare, buttare tutto sul tavolo. Il poker moderno, il texas hold’em che si vede ormai in tv e sponsorizza oneste attività, ha addomesticato la tragica mancanza di limite dell’azzardo imponendo a chiunque le stesse chip iniziali e la stessa quota di iscrizione al torneo. Un democratico metadone per la droga del gioco. Ma anche qui c’è il momento dell’all in. «Tutto dentro». O la va o la spacca. Come la vita. Che, come spiegava Heidegger, ha già una conclusione scritta, quella che determina la nostra condizione terrena. I giocatori, ad ogni partita, s’illudono che non sia così. Si sentono dèi quando spillano le carte o lanciano i dadi soffiandosi nel cavo delle mani. Pensano di avere dalla loro parte l’infinito, l’abisso. Ma sono soltanto uomini. Troppo uomini. E alla fine perdono. Anticipando, semplicemente, al loro simbolico tavolo di panno verde, la sconfitta che tutti ci riguarda.