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 2013  luglio 18 Giovedì calendario

DON SALVATORE, UNA VITA TRA MATTONI, ALTA FINANZA E GUAI CON LA GIUSTIZIA –MILANO

Lei è mai stato in prigione? » . Pranzo da Salvatore Ligresti qualche anno fa. Il giovane banchiere che si sente porre la domanda rimane un po’ sconcertato. Ma per il padrone di casa, che in curriculum ha pure 112 giorni di detenzione preventiva a San Vittore, il carcere è il luogo che dà la misura del carattere di un uomo. Del resto, dagli abusi edilizi milanesi di metà Anni 80 che costano la poltrona al sindaco Carlo Tognoli, alla Tangentopoli di inizio Anni 90, fino alle vicende legate alla gestione della Fonsai che oggi gli fanno schivare la cella solo per motivi di età, la carriera di Don Salvatore è una strada pericolosa che si dipana tra la storia, la politica, e perché no, la geografia d’Italia e lo porta spesso nelle aule giudiziarie.

Quel siciliano di Paternò, classe ’32, laureato in Ingegneria a Padova, sbarca a Milano all’inizio degli Anni 60 con poco in tasca se non i rapporti con i conterranei Michelangelo Virgillito e Raffaele Ursini, ras della finanza milanese e a loro volta legati a un altro compaesano di gran peso come il politico missino Antonino La Russa. Mattoni e finanza, credito facile e una certa intraprendenza, il costruttore Ligresti – almeno come racconta lui in una rara intervista ad Anna De Martino su Il Mondo – svolta nel ’62, quando con 15 milioni di lire acquista il diritto per costruire un sopralzo nella milanese via Savona – non ancora terra di creativi, ma di semplici case di ringhiera – e lo rivende al volo per 50 milioni.

Il sistema Ligresti, che intanto non disdegna di comprare da Ursini – che poi contesterà l’operazione e si vedrà dare ragione da un tribunale – una quota delle assicurazioni Sai, è però meno lineare di quello esposto. Lo si scopre nel 1986, come ha raccontato Gianni Barbacetto, quando si capisce che due terzi delle nuove edificazioni concesse dalla giunta Tognoli riguardano proprio società dei Ligresti. Il costruttore con grandi agganci politici che si allargano dal nucleo originario del Msi targato La Russa fino al Psi milanese –

Nerio Nesi, ad esempio imputa la sua cacciata dalla guida della Bnl a un mancato finanziamento a Ligresti chiesto da Bettino Craxi in persona – ha creato un impero edilizio, ma soprattutto ha stretto solidissime relazioni anche con l’establishment finanziario, a partire dal numero uno di Mediobanca Enrico Cuccia. Sono gli anni in cui Ligresti diventa «mister 5%»; piccole partecipazioni piazzate in molte società della Galassia di piazzetta Cuccia – da Pirelli, a Rcs, a Impregilo – strategiche nel tessere la rete di controllo che sostiene e imprigiona al tempo stesso il capitalismo relazionale. Nel frattempo il costruttore non sfugge alla violenza degli anni cupi – sua moglie viene rapita nell’81 e liberata dietro il pagamento di un riscatto un mese dopo – mentre violenza anche maggiore colpisce due dei tre rapitori, che verranno in seguito trovati uccisi.

Nell’89 è Mediobanca che mette in sicurezza l’Ingegnere con una quotazione assai generosa della sua Premafin, la finanziaria che controlla la Sai e che a sua volta è controllata da non trasparentissime holding lussemburghesi. Ma oltre che nei salotti buoni, Ligresti entrerà anche in carcere: dopo una prima condanna per le aree edificabili, nel 1992 finisce per più di cento giorni a San Vittore, accusato di aver pagato tangenti per la sua società di costruzioni Grassetto, poi è inquisito e condannato in via definitiva per le tangenti che la Sai ha versato all’Eni perché questa sottoscrivesse le sue polizze. Sconterà la pena in affidamento ai servizi sociali, ma perderà – senza più i requisiti di onorabilità – le cariche nelle aziende quotate, aprendo così la strada all’avanzata dei figli.

Quella Mediobanca che lo ha tutelato, e che dal ’94 lo ha usato anche come solido azionista, lo candida nel 2002 a un’altra acquisizione d’oro: la Fondiaria, compagnia fiorentina che sta in pancia a Montedison, a sua volta nel mirino della Fiat. Vincenzo Maranghi, l’uomo che ha ereditato da Cuccia la guida di Mediobanca, non vuole che finisca in mani ostili: la Sai dribbla l’Opa sulla compagnia concorrente grazie a una serie di «cavalieri bianchi» chiamati proprio da Maranghi e alla fine ne conquista il controllo. Quel bottone ghiotto è però avvelenato: Maranghi impone alla guida della compagnia Enrico Bondi, manager di stretta osservanza mediobanchesca e Jonella ci mette poco a farlo fuori. Nello stesso periodo i Ligresti non si disperano quando l’Antitrust impone a piazzetta Cuccia di vendere il suo 15% in Fonsai e nel 2003 la decisione di cacciare Maranghi da Mediobanca viene presa proprio nella villa di Don Salvatore a San Siro.

Mediobanca è grande creditore – ha concesso affidamenti per 1,1 miliardi – del gruppo, e i Ligresti restano azionisti di peso dell’istituto, ma il patto si è rotto, mentre in Fonsai – come accerteranno i magistrati – si consuma una spoliazione sistematica da parte della famiglia e dei famigli. Nel 2011, mentre il governo Berlusconi vacilla e le coperture politiche di Don Salvatore si indeboliscono, l’uomo apre il capitale della Premafin ai francesi Vincent Bolloré e Groupama. Assieme i tre soggetti hanno il 15% di Mediobanca e assieme potrebbero avere una presa assai forte sulle Generali, vero gioiello della finanza italiana su cui gli appetiti sono sempre alti. La battaglia con piazzetta Cuccia è dichiarata. Il progetto di Ligresti e dei suoi alleati però non passa: la Consob, presieduta dal tremontiano Giuseppe Vegas blocca Groupama richiedendo l’Opa su Premafin. E poche settimane dopo la stessa Mediobanca, assieme ad altri soci forti di Generali decapita la compagnia dal suo presidente, quel Cesare Geronzi che – è il sospetto – a Ligresti e ai congiurati francesi era pronto a riservare un occhio di riguardo. Mentre l’impero edilizio dell’Ingegnere si ripiega su sé stesso – è costretto a vendere proprio a Generali la sua quota nel megaprogetto CityLife –, Mediobanca, non più madrina ma matrigna, prepara le sgraditissime nozze di Fonsai con Unipol. È il momento dei rimpianti e dei veleni, del foglio con le richieste di Ligresti siglato dall’ad di Piazzetta Cuccia Alberto Nagel – gli costerà un avviso di garanzia – e dei memoriali annunciati da Jonella. Fino a ieri, quando quel che resta dell’impero di Don Salvatore finisce in manette.