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 2013  luglio 18 Giovedì calendario

“HO LE GAMBE E NON MI SERVONO NON È COSÌ CHE VOLEVO ESSERE FAMOSA”

DAL NOSTRO INVIATO
IMOLA «Non è questa l’intervista che sognavo io, non è così che volevo diventare famosa», dice Alessia. E ti guarda fiera, arrabbiata, polemica, bellissima. Pianta le unghie sulle sponde del letto, tende tutti i muscoli delle braccia magre d’atleta, fa per tirarsi su — qualche secondo, un’eternità — invece rimane lì, sfinita per lo sforzo. Ma non si arrende, no. Tra pochi secondi ci riproverà. «È solo questione di tempo, alla fine vinco io», giura, e capisci che è vero. Perché una così non perde mai. Alessia Polita, 27 anni, un mese dopo l’incidente di Misano. Quelli che se ne intendono, spiegano che non c’è mai stata nessuna ragazza veloce come lei sulle moto. Così forte che in Italia le avevano chiesto di correre solo con i maschi, e lei andava più forte di molti di loro. Più forte della spagnola Rosell e della tedesca Prinz, lo dice il confronto con i tempi cronometrati in pista. La donna più veloce, però la sua famiglia non ha mai avuto abbastanza soldi per un team di quelli veri e allora toccava a papà Giancarlo, carrozziere di Jesi, portarla per il mondo in furgone e magari — «come era accaduto ad Assen» — montare le gomme in griglia con un paio di ferri presi a prestito, e poi vincere.
Fino a sabato 15 giugno, turno di qualificazione del Campionato italiano velocità, categoria Stock 600. Centottanta all’ora, la Yamaha numero 51 che resta accelerata all’ingresso della curva e sull’inchiodata la proietta contro le barriere. Quattro file di gomme davanti a un guardrail che resterà piegato per l’impatto. «Otto costole rotte, doppia perforazione dei polmoni. Bacino rotto, lesioni interne», recita lei. «Ma non ho sentito dolore. Perché la vertebra 12 è esplosa». All’uscita della sala operatoria, in barella, ha affrontato il chirurgo. «Non raccontare str.., gli ho detto. Dimmi la verità. E lui lo ha fatto: midollo tagliato, resterai paralizzata dalla vita in giù». Anche in quel momento la rabbia, la voglia di rivincita, ha prevalso sul dolore. «Forse è perché una cosa così non me l’ero neppure immaginata. Quando corri pensi che potrai romperti un braccio, una gamba. Morire. Ma paralizzata, mai». Confessa che quella doveva essere l’ultima gara della sua vita. «Sono dodici anni che faccio sacrifici con mio padre. Lo avevo già detto a Eddy: mi sono rotta le palle, basta». Voleva seguire il fidanzato, Eddy La Marra, un altro pilota di successo come il fratello Alessandro, da un circuito all’altro. Andare a vivere con lui. Magari lavorare per la Federazione, insegnare come si guida. Come si vince, come non si cade. Una vita tranquilla. «So che in pista mi avevano coperto con un lenzuolo e mio padre — stava proprio lì, voleva segnalarmi i tempi — credeva fossi morta. Quando ho riaperto gli occhi l’ho salutato con le mani. “Tutto a posto”. Ma avevo già capito cosa mi era accaduto». Se la prende con gli organizzatori della gara: «In quel punto quando corrono il motomondiale ci sono gli air fence. Per noi no. Forse contiamo di meno». In questi giorni ha ricevuto la visita di tifosi e campioni come Bayliss e Melandri. Non guarda la tivù, non sa ancora se domenica seguirà il MotoGp da Laguna Seca. «Ora non mi importa. Preferisco leggere ». La biografia di Alex Zanardi. «Mi piacerebbe incontrarlo, mi aiutate? Lui le gambe non le ha, ma può usare delle protesi: camminare, prendere in braccio suo figlio. Io ho le gambe ma non me ne faccio niente».
È ricoverata alla clinica riabilitativa di Montecatone, due stanze più in là c’è il carabiniere Giuseppe Giangrande, ferito ad aprile nell’attentato a Palazzo Chigi. «È nel settore A. Noi del B siamo quelli più fortunati», spiega, e fa una smorfia. Due ore dopo è riuscita tirarsi su. Primo giorno di palestra, poi l’hanno seduta su di una carrozzella e ha potuto abbracciare Aaron, il suo cane, un segugione preso al canile. «Lo avevo detto, è solo questione di tempo. Alla fine vinco io».