Filippo Facci, Libero 18/7/2013, 18 luglio 2013
I GIUDICI SPUTTANANO
INGROIA&C –
Non si può essere processati due volte per lo stesso reato, in Italia: ma tre o quattro volte sì. Lo insegna il caso Mori, anche se dire tre o quattro volte, forse, è poco: la vicenda della «mancata cattura di Bernardo Provenzano» è apparsa e scomparsa come un fiume carsico da un’infinita di processi, perché da quelle parti si usa così. Più è generico e confuso il capo d’imputazione e tanto più può essere derubricato e ricomparire sotto altre forme in altri procedimenti. Ieri il generale Morie il colonnello Obinusono stati pianamente assolti dall’accusa di favoreggiamento a Cosa nostra (per non aver arrestato Provenzano in un casolare di Mezzojuso nel 1995, come detto) e così pure nel 2006 il generale Mori fu assolto, assieme al Capitano Ultimo, per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina: sentenza con formula piena e peraltro mai appellata. Casi diversi, ma stesso romanzo a puntate: questa e altre questioni infatti riaffioreranno nel convulso processo sulla «trattativa» che pure si sta celebrando a Palermo, altra creatura di Antonio Ingroia. Invertendo continuamente l’ordine dei fattori, cioè, a Palermo sperano che il risultato possa cambiare.
Siamo solo al primo grado - i pm hanno già detto che impugneranno - ma va comunque registrata una batosta che per l’accusa resta epocale. Non solo il tribunale ha pienamente assolto gli imputati, ma ha chiesto di riprendere i verbali degli accusatori per denunciarli eventualmente per calunnia. Si tratta del colonnello Michele Riccio e dell’ormai celebre Massimo Ciancimino: il primo, tramite il suo confidente Luigi Ilardo poi assassinato, era già stato denunciato da Mori e Obinu ma inutilmente, anzi, il gip che assolse Riccio mise nero su bianco le «plurime omissioni e inerzie del Ros dei carabinieri finalizzate a salvaguardare la latitanza di Provenzano», tanto per complicare le cose; l’altro, Ciancimino, che ora è agli arresti domiciliari per una faccenda di evasione fiscale, aveva raccontato di rapporti tra suo padre (Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo) e il generale Mori. Riscontri? Nessuno, o meglio: nessuno che non provasse che il generale non stesse facendo solo il proprio dovere. Fatto sta che il procuratore Vittorio Teresi, sconfitto, si è già affrettato a precisare che «Ciancimino, nel processo Stato-mafia, non ha la centralità che aveva in questo dibattimento». Comodo a dirsi, visto che nel processo sulla trattativa non c’è semplicemente niente che abbia una centralità. Molto comunque dipenderà anche dalla lettura delle motivazioni della sentenza di ieri, che il tribunale, al solito, renderà note entro tre mesi.
Anche per questo, per la già indimostrabile tesi della «trattativa», potrebbe farsi veramente dura: Provenzano di questa trattativa doveva essere il regista (dopo aver tradito Totò Riina) e col suo mancato favoreggiamento viene quindi a mancare un fondamentale pilastro senza che sia chiaro quali siano rimasti in piedi. I Carabinieri dei Ros, cioè Mori e Obinu, secondo il tribunale non garantirono a Provenzano nessuna particolare immunità, non fecero da tramite tra lo Stato e Cosa nostra: ciò su cui i pm dell’accusa avevano maggiormente insistito. E, ora, pare difficile attendersi degli sviluppi clamorosi dalla posizioni di altri imputati.
Ma il processo di ieri era importante anche per un’altra ragione: per i forti condizionamenti ambientali di cui si è dimostrato incurante. In questo l’avvocato Basilio Milio, uno dei legali del generale Mori, ha pienamente ragione. A Palermo il clima è quello che è: le caciare delle cosiddette «agende rosse», dopo la lettura della sentenza, non hanno rinunciato a urlare il consueto «vergogna » verso una giustizia che invocavano ma non rispettavano. Peccato solo che Pietro Milio, padre di Basilio e precedente legale di Mario Mori, non abbia potuto esserci. La vittoria di ieri è anche cosa sua.