Marco Onado, Il Sole 24 Ore 18/7/2013, 18 luglio 2013
L’INERZIA COLPEVOLE DELLE AUTHORITY
Il clamoroso arresto di ieri della famiglia Ligresti è l’ultimo atto di una lunga vicenda emblematica dei vizi strutturali del capitalismo di relazione italiano e delle nostre strutture di controllo. Sai-Fondiaria è infatti la storia della sistematica spoliazione di quello che era il secondo gruppo assicurativo italiano, ai danni in primo luogo degli azionisti di minoranza, ma anche dell’intera struttura produttiva nazionale. E si è pure tramutata in una sorta di Fossa delle Marianne delle autorità di controllo, in primo luogo del l’Isvap, non solo perché il presidente di allora è indagato per un’ipotesi di corruzione per omessa vigilanza, ma perché comunque ha sottovalutato per anni il gravissimo indebolimento patrimoniale della società. Non a caso, questa vicenda è stata l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso e portato alla soppressione dell’Isvap e al trasferimento delle competenze in Banca d’Italia. Ma anche la Consob ha inanellato una lunga serie di ritardi e inefficienze. Oltre dieci anni fa, l’autorità di mercato non vide l’intesa tra Premafin (la solita scatola cinese di famiglia) e Mediobanca nel controllo di Fondiaria e quindi non fece scattare l’Opa obbligatoria, con un ovvio danno per i piccoli azionisti, privati del premio di controllo. Quando il patto fu scoperto (dall’Antitrust, si badi) era troppo tardi e dunque gli azionisti rimasero a bocca asciutta, con l’unica consolazione di una lunga azione risarcitoria. La casistica giuridica si è quindi arricchita di una nuova fattispecie di Opa: quella "a babbo morto", come si dice in Toscana. È un fatto che la Consob degli ultimi anni ha mostrato un occhio di riguardo per le operazioni "di sistema" benedette da Mediobanca: nel 2001 con l’operazione ricordata, ma anche nell’ultima fase, quando la crisi era ormai conclamata, ed è stato approvato un piano di salvataggio da parte di Unipol che avvantaggiava i vecchi azionisti (liquidati profumatamente: come pagare il comandante Schettino per non mettere più piede su una plancia) e le banche creditrici (Mediobanca e Unicredit in primis). Tutto ciò ai danni dei piccoli azionisti, cui è stata negata l’Opa, che hanno visto svanire il loro capitale. Solo negli ultimi due anni, il titolo ha perso oltre un terzo del suo valore (e Unipol non è andata molto meglio), mentre le Generali si sono rafforzate. E mentre la Consob decideva con un indubbio favor a quelle che meno ostacolavano le operazioni di sistema care al capitalismo familiare italiano, i sospetti sui bilanci della società si accumulavano ad una velocità enormemente superiore alle azioni concrete dell’organo di controllo. Oltre alla spoliazione ai danni dei piccoli azionisti per operazioni in conflitto di interesse, si è arrivati alla scoperta di veri e propri buchi nei bilanci, con la conseguenza di una manipolazione dell’informazione fornita al mercato. Cioè le due ipotesi di reato formulate dai PM torinesi sulla base della relazione inviata ex post dalla Consob. La relazione Consob per il 2012 elenca in modo puntiglioso i molteplici "atti di vigilanza" che sono stati effettuati per questo caso: alcuni di questi anche meritori (come il freno imposto ai compensi per gli azionisti uscenti). Dal punto di vista formale e burocratico, tutto appare a posto, ma non è questo l’attivismo che ci si aspetta da un’autorità di controllo che dovrebbe essere (come dice il motto della Sec) il "paladino degli investitori" e non sono certo i tempi della magistratura che tutelano davvero il mercato. Purtroppo Sai-Fondiaria è solo il caso più macroscopico dei difetti del capitalismo familiare italiano: non a caso la famiglia Ligresti, pur già nell’occhio del ciclone della crisi aziendale, aveva trovato le risorse per aderire con entusiasmo all’appello del governo Berlusconi per salvare l’italianità di Alitalia (nonché i crediti delle banche). Non c’è da meravigliarsi se i modelli di controllo risultano impermeabili ad ogni variazione: in Italia, il primo azionista controlla il 46 per cento (media non ponderata) delle azioni con diritto di voto delle società quotate; insieme agli altri azionisti rilevanti la quota arriva al 62,7 (era il 60.8 nel 1998). A furia di salvataggi dei soliti noti e di operazioni "di sistema", la Borsa italiana conferma la sua vocazione ad essere il club degli affari di famiglia, non un mercato capace di attirare risorse per gli investimenti e la crescita delle imprese. Un vecchio vizio, si dirà. Ma nel momento in cui la crisi sta erodendo la base produttiva del Paese, anche perché sono venuti al pettine molti problemi strutturali del nostro sistema finanziario, un fattore di ritardo rispetto agli altri Paesi europei che pesa come un macigno sulle possibilità di ripresa.