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 2013  luglio 18 Giovedì calendario

LIGRESTI, LE RADICI DEL PATRIMONIO NON FERMARONO L’OK DI CUCCIA

Dicono che il dna della grandi ricchezze personali cumulate dal nulla, spesso si trovi stampato nel primo grande affare realizzato. Difficile formulare una teoria generale, vista l’immensa varietà di combinazioni. E tuttavia essa, perlomeno secondo i pm torinesi, sembra trovare conferma nella parabola di Salvatore Ligresti. Ancora oggi, infatti, negli ambienti finanziari milanesi ci si interroga su come sia stato possibile che un intermediario immobiliare, che ancora nel 1978 dichiarava al fisco un reddito annuo di 30 milioni di lire (equivalenti a circa 600 mila euro rivalutati), di lì a poco abbia potuto diventare il padrone della Sai, già allora una delle principali compagnie nazionali.
Ora, nella city milanese nessuno ignora che Ligresti già a metà degli anni Sessanta era assiduo frequentatore del più influente raider di Piazza Affari, il compaesano Michelangelo Virgillito, quando da quelle parti il «nero» correva a fiumi e per guadagnare cifre importanti non c’era bisogno di capienti conti in banca, bastava disporre di buone informazioni. Ma se ciò spiega come egli riuscì a rilevare da Michele Sindona la mitica Richard-Ginori, ormai povera di produzione ma ricca di aree industriali e immobiliari da dismettere e valorizzare, non basta a spiegare un’acquisizione del valore di svariate decine di miliardi di vecchie lire
LA PORTA D’ORIENTE

Il modo in cui Ligresti strappò la Sai all’allora azionista di controllo Raffaele Ursini resta infatti un mistero. Nè la sentenza milanese, che dopo anni di scontri chiuse la contesa rigettando le istanze di Ursini, contribuì a chiarire quel che ancora oggi i suoi eredi chiamano «scippo». Insomma, un affare dalle origini molto dubbie che però ben presto si trasforma in una sorta di Porta d’Oriente capace di introdurre Ligresti nell’alta finanza milanese e poi, tra pochi italiani guidati da Gianni Agnelli, nelle classifiche di Forbes e Fortune.
A metà degli anni Ottanta, divenuto l’immobiliarista più potente del capoluogo lombardo anche grazie alle frequentazioni politiche che lo vedono spesso accanto alla famiglia La Russa (Msi), a Bettino Craxi (Psi), all’assessore Maurizio Mottini (Pci), nel portafoglio della sua Premafin non figura solo il controllo della Sai, ma anche significative quote di snodi cruciali nella geografia del potere finanziario: il 5,2% della Cir di Carlo De Benedetti, il 5,8% dell’Italmobiliare dei Pesenti, il 5,4% della Pirelli di Leopoldo Pirelli, il 3,7% dell’Agricola Finanziaria dei Ferruzzi cui fa capo, tra l’altro, la Montedison. È il momento più alto per Ligresti: omaggiato e riverito nei salotti come un piccolo sultano, è apprezzato da tutti per la sua grande disponibilità a intervenire a fianco di chi ha bisogno, purché di rango elevato. Poco importa se il suo passato non è chiarissimo, anzi è macchiato da più di un’ombra: grazie al ricco portafoglio di Sai, adesso può sedere accanto a coloro che contano.
Ma nella seconda parte degli anni Ottanta una brutta inchiesta giudiziaria blocca molti suoi cantieri e ne prosciuga la proverbiale liquidità. L’ombra del fallimento incombe. Ed è a quel punto che gli incontri in Via Filodrammatici, sede della Mediobanca di Enrico Cuccia, diventano sempre più frequenti. Finché è lo stesso Cuccia a dispiegare la sua protezione sull’ingegnere di Paternò. E con una manovra audace, a portare in borsa la sua Premafin valutandola oltre 1.000 miliardi di lire. Il gruppo è salvo, Ligresti di nuovo in sella. E con Cuccia al suo fianco.
ALLEATO FEDELE

Ma perché il fondatore di Mediobanca, noto per la prudenza esasperata, decide di accoglierlo nel suo entourage nonostante Ligresti sia privo di un blasone consolidato? La risposta più convincente: lasciarlo fallire avrebbe significato gettare a mare la Sai e con essa un suo pacchetto azionario cui Cuccia teneva più d’ogni altra cosa: il 10,7% di Euralux, finanziaria lussemburghese in quel momento titolare di un fascio determinante di azioni Generali. Per controllare quel pacchetto, Cuccia era disposto a fare patti anche con il diavolo.
D’altro canto, Ligresti ha una qualità che a Cuccia piaceva molto: è uomo di parola. Sicchè, dopo essersi frequentati ma mai mescolati (sebbene sia proprio Ligresti a portare Craxi nell’ufficio di Cuccia a metà degli anni Ottanta), l’ingegnere diventa per il banchiere un alleato fedele, strumento utile per manovre ad alto rischio. E quando la tempesta di Mani Pulite lo colpirà nuovamente, sarà ancora Mediobanca a sistemare le sue cose.
Morto Cuccia, sarà però il successore Vincenzo Maranghi a portargli su un piatto d’argento la Fondiaria, in odio alla Fiat che l’avrebbe voluta per sé. Un’operazione che porterà Ligresti a indebitarsi ancor più e che successivamente Maranghi si pentirà di avere favorito. Troppo tardi: la crisi e una gestione delle aziende tutt’altro che oculata, costringerà FonSai alle nozze forzate con Unipol davanti allo sgretolamento di un patrimonio sulle cui origini ancora si erge il dubbio.