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 2013  luglio 13 Sabato calendario

IO MAFIOSO?


[Fabrizio Miccoli]

Fabrizio Miccoli forse non ha voluto vedere né sentire, però parla. Anzi, non parla d’altro: dell’interrogatorio di cinque ore davanti alla Procura di Palermo che indaga su di lui per concorso in tentata estorsione e accesso abusivo a sistemi informatici. Dell’amicizia con Mauro Lauricella, figlio del mafioso Nino ’U Scintilluni (le foto col pregiudicato Giacomo Pampillonia usciranno pochi giorni dopo questa intervista, ndr). Del sindaco di Corleone che gli ha revocato la cittadinanza onoraria e della Federcalcio che minaccia di radiarlo. E soprattutto, di quella frase che è diventata il cappio che sta lentamente asfissiando la sua immagine pubblica:«vediamoci sotto l’albero di quel fango di Falcone» è uscito dalla sua bocca, in circostanze che ha scelto di chiarire oggi, con SportWeek.
Per rafforzare le proprie verità, capita che ci si lasci andare a espressioni esasperate: lo giuro su mio figlio, si dice ad esempio. Mentre racconta, Miccoli il figlio Diego se lo tiene in braccio, e lascia che ascolti tutto col suo Gormita in mano e il piede incerottato dopo un salto maldestro su un riccio. Una scena che fa un effetto strano, melodrammatico e dignitoso allo stesso tempo, mentre le parole mafia, verità, giuramenti, paura, vibrano nell’aria. Ci incontriamo nella sua casa di San Donato di Lecce, per poi trascorrere insieme una giornata intera in questo paese salentino senza mare azzurro né masserie con la talassoterapia: un paio di bar, il centro sportivo "Fabrizio Miccoli" col suo bel campo in erba sintetica dove s’allenano 170 bambini, qualche casa mal terminata e tanta gente che per strada si ferma a salutarlo. Uno zio elettrauto, dolcissimo e scalmanato (cià rotto la m... u Palermu!!), con la sindrome di down. Il signor Pino, padre del compaesano ed ex terzino della Juventus Pasquale Bruno. Papà Enrico Miccoli, che sull’avambraccio ha un tatuaggio rosanero. La cugina di primo grado che possiede un bar dove in serata si esibisce il sosia di Renato Zero e il cugino di secondo grado che sta per emigrare in Svizzera in cerca di lavoro («Qua si chiamano tutti Miccoli», fa notare l’avvocato Francesco Caliandro, legale e procuratore del calciatore. «A Palermo, vedrà, salteranno fuori tanti casi di omonimia. Altro che frequentazioni mafiose da parte di Fabrizio...»). Ma capita d’incontrare anche il vecchio amico cui hanno incarcerato un parente per omicidio volontario e l’ex presidente del Lecce Pierandrea Semeraro, imputato a Bari per frode sportiva, che gli viene incontro al ristorante e gli parla fitto per mezz’ora. Mani pulite e mani chissà, strette a decine, in poche ore, sotto i nostri occhi. Questo per concedere a Fabrizio Miccoli il beneficio del dubbio: il Sud è terra difficile, dove l’amore e il bisogno s’intrecciano come il profumo e il respiro. Ci fossero in giro paparazzi, per lui oggi sarebbero ancora illazioni, dubbi, guai. «Sono felice d’essere andato dai giudici», ripete all’infinito. «Avrei dovuto farlo prima. Ora mi sento nudo. Ma libero».

Davvero non s’era accorto che Mauro Lauricella fosse figlio di un boss?
«All’inizio no. L’ho conosciuto al campo d’allenamento del Palermo: sapevo che giocava a calcio nelle serie minori, tutto qui».
Poi?
«Poi sì, col passare degli anni, ho saputo tutta la sua storia».
Perché ha continuato a frequentarlo?
«Ci vedevamo soprattutto d’estate, andavamo a bere qualcosa, ci sentivamo al telefono ogni tanto. Perché non ho evitato di vederlo? Perché mi son rifiutato di condannarlo solo per il cognome che porta. Per me era un ragazzo pulito, fuori da ogni giro, e per quel che ne so, completamente incensurato».
Non la insospettiva il suo tenore di vita? Le Ferrari, le moto d’acqua...
«La Ferrari con cui si faceva fotografare, intende? Quella era mia».
Sul braccio Lauricella ha un tatuaggio con scritto «Amo la famiglia, e mio padre è il mio amore». Frase da film gangster, quasi.
«Io non vado a guardare i tatuaggi. Ripeto; era l’amicizia tra un ragazzo di venticinque anni e uno di trenta. Avevo la sensazione che gli mancasse affetto, e ho cercato di stargli vicino».
Ci si è un po’ identificato, magari.
«Forse sì. A 12 anni ero già via di casa, a Milano, in un dormitorio dei preti. Mio padre lo vedevo solo a Natale, e soffrivo tantissimo. Distacchi così prematuri, forse, andrebbero impediti».
I magistrati ipotizzano che lei abbia sfruttato l’influenza di Lauricella per ottenere indietro soldi investiti nella discoteca Paparazzi, a Isola delle Femmine.
«Di questo non posso parlare, l’ho promesso ai magistrati. Dico solo che in quella discoteca non ci sono mai andato, non conosco i proprietari, e neppure so dove sia. Le discoteche non mi piacciono. Non so neppure ballare».
Ha mai avuto l’impressione che questo ragazzo fosse temuto?
«No. Era ben visto, lo salutavano tutti».
Non le ha mai detto: "Fabrizio, se hai problemi, non ti preoccupare che ci penso io"?
«Il fatto è che a Palermo me lo dicevano tutti. Ma di cosa potevo aver bisogno io? Di entrare in discoteca? Se volevo, me la compravo la discoteca. Di proteggermi dai tifosi? Mi suona strano, visto che i tifosi volevano parlare solo con me».
Si ricorda il momento in cui ha chiamato "fango" il giudice Giovanni Falcone?
«Sì. Era il 13 agosto 2011, uno dei pochi giorni liberi dopo un mese di ritiro in Austria. È stata una cosa detta in macchina, dopo una nottata in un locale, alle cinque meno venti del mattino».
Con chi era al telefono a quell’ora?
«Non ero al telefono. S’è trattato di un’intercettazione ambientale».
Aveva bevuto?
«No. Ma il clima era quello lì, sì insomma, da serata».
Spera che il contesto goliardico alleggerisca la sua posizione?
«No, non spero niente. Quello che ho detto rimane gravissimo, e mi scuserò all’infinito, con la città e con la famiglia Falcone. È per questo che durante la conferenza stampa in cui ho cercato di chiarire la situazione non ho fatto cenno a queste cose. Non voglio alibi».
Insultando Falcone cercava di compiacere un ambiente che temeva?
«Non so, non ricordo. Ma non credevo fosse una parola così pesante. Al campo la usavamo tutti, per prendere in giro i compagni, il magazziniere, i preparatori. Fango di qui, fango di là. È una cosa che ho detto così, stupidamente, senza pensare. Chiedo scusa a tutti».
In conferenza stampa ha detto che la mafia è quanto di più lontano ci possa essere dal suo modo di essere.
«Esatto».
Riesce a fare di più?
«Certo: la mafia mi fa schifo».
E "fango" sono i boss, nel caso.
«Certo, sempre che la parola fango sia sufficiente».
Le vengono però attribuite altre frequentazioni compromettenti: con Francesco Guttadauro, ad esempio, nipote del latitante Matteo Messina Denaro.
«Non so. Lui l’avrò visto tre volte, forse quattro, in sei anni. Ripeto: in città ho frequentato tutti, a 360 gradi. Ho trascurato la famiglia per donarmi a Palermo».
Il suo matrimonio ha vacillato?
«No, ma abbiamo litigato molte volte su queste cose. Flaviana me lo diceva sempre: sei un coglione. Adesso posso dire che aveva ragione».
Coglione per cosa?
«Perché andavo ovunque, arrivavano gli inviti e non rifiutavo mai. Mi sentivo uno importante. La figura più importante per lo sport in città».
I suoi colleghi, in effetti, se la tirano un po’ di più.
«Col senno di poi, fanno bene».
Era richiesto anche dalla politica?
«Facevo il giro delle scuole col presidente della Provincia, spessissimo. Se mi metto a elencare cosa ho fatto per la città, stiamo qua due settimane».
A Corleone intanto le hanno tolto la cittadinanza onoraria.
«Perché non ricordano più le volte che sono andato in televisione a parlare bene del paese, a invitare tutti quanti ad andarci. Sa che le dico? Meglio così, un peso in meno, adesso sarà più facile lasciarmi dietro il passato».
La gente veniva davvero a bussare alla sua porta per chiederle soldi?
«Certo. Sapevano tutti dove abitavo. Tanto che tre anni fa ho dovuto cambiar casa per via di una rapina, mentre giocavo a Udine. M’hanno svaligiato l’appartamento con dentro tutti quanti: bambini, moglie, suoceri. Un trauma, anche se di queste cose adesso non parla più nessuno. Mi suonavano di sera e portavano bollette, mi chiedevano vestiti. Tutti i mesi raccoglievo le cose regalatemi dalla Nike per darle a chi aveva bisogno. Facevo collette tra i compagni. Spendevo 30 mila euro l’anno per acquistare magliette del Palermo da dare in giro. Per non parlare dei soldi a un’associazione di Partinico, giocattoli all’ospedale Santa Cristina, contributi a cinque case famiglia. Davvero, non finiamo più. È per questo che mi chiedo: un errore può davvero cancellare tutto quanto?».
Quando dicono che la colpa di quanto è accaduto è tutta da attribuire alla sua ignoranza, si offende?
«No. È vero. Sto in un mondo tutto mio. La gente non ci crede, ma non ho mai pagato una bolletta in tutta la mia vita».
L’automobile se la sceglie da solo, però.
«Sì. Anche l’orologio se è per questo. Entro in negozio, decido, e poi chiamo il mio procuratore e gli dico: "Francesco, pensaci tu". E lui paga».
È incredibile quanto sia poco giustificata l’idolatria che circonda il calcio e i suoi protagonisti, non pensa?
«Non c’è dubbio. Se non fosse per le doti sportive, io sarei una persona normalissima».
Che ha chiamato suo figlio Diego in onore di Maradona.
«Che c’entra. Quello è un punto di riferimento sportivo. L’importante è che anche mio figlio capisca, come l’ho capito io, che gli eroi, in questa nazione, sono altri».
Il contratto col Palermo è scaduto, tanti pretendenti si sono dileguati. Qual è la sua squadra dei sogni?
«Non è difficile da capire, dai».
Il Lecce?
«Eh già».
E i soldi?
«Ne abbiamo già parlato. Un accordo lo troviamo, spero».
E poi?
«E poi faccio un gol sotto la Nord, che è il sogno della mia vita. E posso pure smettere».
E se invece dovessero radiarla?
«C’è gente ancora in attività che s’è rubata persino i pali delle porte. Dubito che possano arrivare a tanto con me».
E se lo fanno?
«Vede questa campagna? A San Donato ho dieci ettari d’ulivi. Male che vada, mi metto a zappare la terra».