Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 17 Mercoledì calendario

MARE PULITO E TUTTO IL RESTO?

Mentre ci apprestiamo a tuffarci nelle acque del Mare Nostrum tutti orgogliosi del primato europeo in quanto a qualità delle acque (nel 2012), potremo forse riflettere sul mare che abbiamo davanti. Il Mediterraneo rappresenta l’1% del complesso degli oceani mondiali, ma è attraversato da un traffico di grandi e piccoli natanti pari a quasi il 20% del naviglio mercantile globale. Qui passano le grandi petroliere che attraversano Suez e Gibilterra, qui si pesca quasi tutto il tonno rosso e il pesce spada del mondo, qui scarica uno dei fiumi più inquinati d’Europa, il Po, e qui si affacciano aree metropolitane da milioni di abitanti: Marsiglia, Genova, Napoli, Palermo, Tunisi, Alessandria d’Egitto, per non parlare degli impianti industriali micidiali di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Marghera, Piombino, Porto Torres. Come è possibile che tutto quel carico inquinante non si risenta nelle acque? La ragione principale è che il mare, in generale, ha enormi capacità auto-depuranti e la diluizione è la prima difesa. Ma incidenti come quelli della petroliera Haven nel Mar Ligure (1991) sono sempre possibili e un solo centimetro cubo di idrocarburi è in grado di eliminare la vita, al 90%, in un metro cubo d’acqua. E le cose vanno peggio per gli inquinanti biologici, peraltro l’unico parametro in controtendenza rispetto al 2011 (+ 5% di colibatteri), nonostante depuratori e maggiori controlli.

Ma la qualità complessiva delle acque del Mediterraneo italiano andrebbe valutata anche per quanto riguarda i fondali. Chiunque si sia immerso in un mare protetto sa come dovrebbe essere ricco e popolato di vita un fondale e sa, invece, come, in generale, nel Mediterraneo questa ricchezza di vita sia mutilata e negata. L’inquinamento, ma anche una pesca industriale distruttiva dei fondali (da noi si continua a tollerare la pesca a strascico, vero killer dei fondali, quando basterebbe imporre corpi morti a mare per costringere i delinquenti a cessarla), il bracconaggio e la scarsa presenza di aree marine protette integrali sono i maggiori responsabili che non vengono ancora tenuti sotto controllo.

Ma, mentre ci accingiamo a tuffarci nei nostri mari al 96% balneabili (un dato rassicurante), guardiamoci un attimo attorno: non notate qualcosa di strano? Affacciandosi anche dalla più remota delle nostre spiagge o coste e voltandoci a destra e a sinistra non riuscirete a vedere più di 15 km privi di costruzioni o infrastrutture: solo il 29% (2200 ettari) dei circa ottomila km di costa italiani sono selvaggi come mamma natura li ha fatti, tutto il resto è occupato da mattoni, asfalto e cemento. Non parliamo poi dell’uso della spiaggia: la duna costiera è stata cancellata ormai su quasi tutto quello che una volta si chiamava confine marino, e la gran parte delle praterie sommerse di Posidonia è stata mangiata. Quasi il 60% delle coste è stato già fatto oggetto di occupazione intensiva, che solo raramente è stata condotta con equilibrio e ha comunque sempre comportato la cancellazione della duna, della macchia e costruzioni a tappeto. Come se non bastasse, il restante 11% è in via di occupazione. L’Italia è il paese d’Europa dove si consuma più territorio: ogni anno perdiamo circa 200.000 ettari sotto nuove costruzioni e strutture, in pratica da noi si cola un metro quadrato di cemento ogni pochi secondi che passano. Un paese moderno come l’Inghilterra ne perde, per fare un confronto, solo diecimila, cioè quanti da noi la sola Sicilia. Infine, il 42% del spiagge italiane è in costante erosione. Questo significa che andranno perdute se non si interverrà in modo incisivo, ma purtroppo l’intervento di ripascimento più utilizzato è quello di riportare con i camion sabbia presa chissà dove e scaricarla lungo la costa: tempo dodici mesi e bisogna ripetere l’operazione (vedi caso del Poetto, a Cagliari), perché questo lavoro l’uomo non lo fa bene come la natura.

Un patrimonio dato per scontato è andato perduto senza che ce ne siamo accorti. Insomma non conta solo il mare in cui ci immergiamo, ma anche il contesto, il paesaggio e questo non gode della stessa buona salute delle acque.