a cura di Francesco Grignetti, La Stampa 17/7/2013, 17 luglio 2013
GIALLO KAZAKO, LE ZONE D’OMBEA NELLE DUE RICOSTRUZIONI
I DUBBI NEL RACCONTO DEL VIMINALE
1 «La signora, dopo l’irruzione del 29 maggio, è stata trattenuta per un’intera giornata negli uffici di polizia. Dapprima alla questura centrale, poi all’ufficio Immigrazione. In questa fase risultava essere una sedicente Alma Ayan, in possesso di un passaporto diplomatico della Repubblica del Centroafrica. Passaporto che la polizia ha ritenuto essere un falso sulla base di due elementi: alcune abrasioni e un paio di parole inglesi scritte malamente (adress e eight). Che il passaporto sia un falso, lo certifica l’Ufficio preposto della Polizia di frontiera che ha sede a Fiumicino, dove sono depositati i fac-simile di tutti i passaporti del mondo. In tutte queste ore, il vero nome di Shalabayeva, che avrebbe potuto ricollegarsi al nome di Mukhtar Ablyazov non è mai stato fatto».
2 «Alla data del 29 maggio ricorrevano tutti i presupposti: la signora Alma Ayan, perché per noi tale era, non aveva un titolo valido per soggiornare in Italia. Ergo, era una clandestina. E le procedure della Bossi-Fini sono chiarissime. È stata fatta una verifica sul passaporto, che a noi risultava falso. È stata interpellata la Farnesina, ovviamente chiedendo informazioni sul nome Alma Ayan, che insisteva nel dire di avere copertura diplomatica, e ci è stato risposto per fax che la signora non era accreditata negli elenchi del personale diplomatico. Il prefetto ha disposto il suo trattenimento al Cie di Ponte Galeria; il questore ha ordinato l’espulsione coattiva dal territorio nazionale. Il 31 maggio, un giudice di pace ha convalidato il trattenimento. Nel frattempo è giunto il riconoscimento ufficiale da parte dell’ambasciata kazaka per madre e figlia. E ci è stata notificata la disponibilità di un vettore per il Kazakhstan a Ciampino. Quindi è stata disposta l’espulsione, non prima di avere avuto il nullaosta da parte dell’autorità giudiziaria. C’è agli atti un fax del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone e del tribunale minorile».
3 «Da quel che abbiamo scoperto in queste settimane, la signora viveva in Italia, a Roma, dal settembre 2012. Perché in questi otto mesi non ha mai chiesto asilo politico? Perché non ha mai usato queste parole nemmeno il 29 maggio, quando è stata per l’intera giornata all’ufficio immigrazione di Roma? E perché non formalizza la richiesta neppure durante l’udienza davanti al giudice di pace il 31 mattina? Se aveva tanta paura del regime kazako avrebbe potuto chiedere protezione internazionale e l’avrebbe avuta. Ma aggiungiamo che sarebbe stato sufficiente informarci che godeva di asilo politico in Gran Bretagna».
4 «Quando ci sono figli minori, che andrebbero affidati fuori dalla famiglia, è ovvio che si cerchi di affidarli al familiare in via di espulsione. Sarebbe illogico il contrario. In questo caso, il tribunale dei minori aveva disposto che la bambina fosse affidata temporaneamente alla zia, su indicazione della madre stessa. Nel frattempo è arrivato il riconoscimento ufficiale dell’ambasciata anche per la minore. Quando s’è trattato di accompagnare la signora a Ciampino, abbiamo disposto che una pattuglia andasse a Casal Palocco a prelevare la bimba per accompagnarla dalla madre».
E NELLA VERSIONE DEGLI AVVOCATI DIFENSORI
1 «È vero che la signora ha insistito nella finzione di Alma Ayan, ma perché terrorizzata all’idea di far emergere il suo vero nome. La signora temeva di mettere sulle sue tracce il regime. Con il marito erano scappati da Londra nel gennaio 2011, perché secondo Scotland Yard c’era un complotto. In Italia pensava di poter vivere una vita normale. La sera del 29 maggio, prima di finire nel Cie di Ponte Galeria, ha messo per iscritto la richiesta di affidare la figlia alla sua «collaboratrice e amica», Venera Sedareva che vive presso di lei nella villa di Casal Palocco. In verità la signora Venera è sua sorella, ma non voleva rivelare il rapporto di parentela».
2 «Da un punto di vista formalistico il procedimento di espulsione sembra essere in regola. Ma non è affatto così. L’ordine del prefetto si basa su due presupposti errati: non è vero che il passaporto sia contraffatto, come abbiamo dimostrato già davanti al giudice di pace e come ha certificato il tribunale del Riesame; non è vero che la signora Alma Ayan sia entrata in Italia attraverso la frontiera del Brennero il 1 gennaio 2004 . Questa seconda circostanza è incongrua perché a quella data non esisteva ancora alcuna Alma Ayan. È un’identità fittizia, «di protezione», che nasce con l’emissione del passaporto diplomatico del Centroafrica nel 2011. E comunque abbiamo scoperto che l’ambasciata del Kazakhstan effettua il riconoscimento ufficiale della signora Shalabayeva il 30 maggio, un giorno prima dell’udienza davanti al giudice di pace, che se avesse avuto questo documento avrebbe dovuto convalidare il trattenimento».
3 «È vero che la signora non ha chiesto asilo politico negli otto mesi in cui ha vissuto a Casal Palocco. Ma era spaventata e non voleva accendere un faro sulla sua presenza in Italia. Se persino Scotland Yard non era stata capace di garantirle la sicurezza, ha pensato che la cosa migliore sarebbe stata di nascondersi dietro il cognome “di protezione”. È altrettanto vero che la richiesta di asilo non è stata formalizzata sui moduli del Cie o davanti al giudice di pace. Ma ne abbiamo parlato: il giudice ci ha invitati a tornare nel pomeriggio a Ponte Galeria per conferire con la signora e formalizzare la richiesta. Ciò è stato impossibile. Questa possibilità ci è stata sottratta perché fisicamente la signora ci è stata sottratta. Alle 13 era già a Ciampino».
4 «La signora era molto preoccupata per la bambina. Abbiamo letto il suo memoriale. La portarono dal Cie a un ufficio di polizia, pensiamo nella questura centrale. Lì le dissero di chiamare la bambina al telefono. Un’agente chiamò al telefonino un collega che si trovava nella villa, quindi presumibilmente attorno alle 12,30, e fecero parlare Alma con sua sorella Venera. “Singhiozzava al telefono. Diceva che erano tornati, volevano la bambina e non le facevano chiamare gli avvocati. Urlai: non dargli la bambina”. Sappiamo poi che zia e nipote salirono sulla macchina con l’autista, e scortati da due auto della polizia. Fu un inganno: gli dissero che sarebbero andati in questura, li portarono a Ciampino».