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 2013  luglio 17 Mercoledì calendario

LA SOLITUDINE DEL MINISTRO CHE SI AUTOASSOLVE IN SENATO

Secondo l’allegato B, tutti assolti. E il più assolto di tutti è il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Il sugo dell’informativa al Senato è semplicemente che lui non sapeva, né lui né il governo: lo ha detto come premessa e come postilla. E in mezzo ha letto un rapporto con l’ambizione della precisione sferica, scritto in inoppugnabile lessico di questura. Il ministro si è alzato davanti all’Aula pochi istanti prima delle diciotto. Serio. Compreso. Con quell’espressione che ha quando è allegro, o preoccupato, o triste, o fiducioso, o annoiato. Dava le istruzioni per l’uso: aprirò le virgolette, chiuderò le virgolette, entro le virgolette ci sono i dettagli, e le considerazioni, e gli sviluppi, e richiuderò le virgolette di cui sopra. Guardava specialmente alla sua sinistra, verso i banchi del Pd, accondiscendente, platealmente severo. C’erano attorno a lui numerosi ministri, Gianpiero D’Alia e Dario Franceschini a un lato, Beatrice Lorenzin all’altro. E prima erano arrivati a salutarlo i colonnelli berlusconiani, Sandro Bondi e Renato Schifani e però era l’assenza del premier e del titolare degli Esteri, Emma Bonino, a risaltare di più.

Una relazione durata venticinque minuti scarsi durante la quale non c’è stato un solo applauso, a parte quello finale, di rito, niente di fiammeggiante. Alfano aveva letto con qualche incertezza le pagine compilate dal capo della polizia, Alessandro Pansa, ma con il piglio dell’uomo sicuro di sé. Si era girato ora di qui ora di là, spostando il plico con metodo arioso e meccanico a destra o a sinistra del microfono, se si rivolgeva ai senatori di un lato o dell’altro. Si volava altissimo, coma la delicatezza della questione richiedeva, fino al «flusso informativo ascendente». Quasi nemmeno sembrava si stesse parlando di una donna e di una bambina di sei anni, prese di notte da cinquanta uomini dei reparti scelti della polizia, rispedite in un paese democraticamente non evolutissimo. Sembrava non si parlasse di diritti umani, di rapporti internazionali poco limpidi, di interessi economici formidabili. Sembrava che Alfano stesse parlando di Alfano, dell’innocenza di sé e dei colleghi, delle procedure, dei protocolli, di un trionfo burocratico che a un certo punto si inceppa, e non ce la fa a scalare l’ultimo chilometro. La risposta a questo sfacelo era la «riorganizzazione del dipartimento». Era «l’avvicendamento del capo della segreteria». Era, massima concessione alla carne e al sangue della vicenda, «l’azione inesausta» per riavere indietro Alma Shalabayeva e la piccina, e chissà a che titolo le restituiranno. Era come se i confini del disastro fossero un’opinione, e quindi dovessero essere ridisegnati dal ministro e dall’intero esecutivo.

C’è voluto Mario Giarrusso, il senatore siciliano a cinque stelle, pur nei suoi modi sconnessi, a restituire un po’ di dignità a un dibattito – sono gli effetti delle larghe intese – rimasto fra il cavillo e l’ossequio. I dubbi di Maurizio Gasparri sul calibro d’oppositore di Mukhtar Ablyazov, le cautele di Claudio Martini (Pd) il cui slancio arrivava giusto a immaginare «ulteriori aspetti da chiarire». La Lega, col capogruppo Massimo Bitonci, si limitava al minimo sindacale d’opposizione, manifestando il sospetto (come Sel) che il governo non potesse non sapere. Quello kazako sapeva senz’altro, ha detto Giarrusso. Ha detto che in «aula si è recitata una grande menzogna». «La pessima trama di un film di serie Z». «Ci sono coperture politiche che vengono dal capo del suo partito», ha detto. Accuse furenti e forse indimostrabili, ma che dovevano essere il cuore di un serio dibattito parlamentare. Quelle, e poi la reputazione di cui gode il Kazakistan nei documenti internazionali, la fine che fanno lì gli oppositori – siano santi o profittatori. La parola «bambina». La parola «orfanotrofio». La parola «donna». La parola «galera». Le parole infine echeggiate nel vuoto.