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 2013  luglio 16 Martedì calendario

IN EUROPA LA PIÙ ESPOSTA È LA GERMANIA


Anche JPMorgan ha tagliato ieri le stime annuali sulla crescita cinese sotto il target governativo, portandolo dal 7,6 al 7,4% e pronosticando per il 2014 un’ulteriore discesa verso il 7,2%: il mondo è chiamato a fare i conti con una Cina che avrà il tasso di sviluppo più basso dal ’90, avviandosi a dimezzarlo rispetto al picco del +14,2% registrato nel 2007. Questo non significa che il peso specifico della Cina diminuisca: quest’anno dovrebbe contare per il 13% del totale dell’attività economica globale, contro il 5% del 2006. Per questo motivo, però, il suo rallentamento ha una grande influenza su singoli settori, Paesi e categorie di investimento.
Se i mercati tendono ad anticipare i trend, è significativo che l’Msci China Exposure Index (che raggruppa una cinquantina di società internazionali, il cui giro d’affari deriva per una quota importante dal business cinese) risulti in calo del 10% circa da inizio anno, per lo più a partire da quando, nel secondo trimestre, le prospettive di Pechino si sono ridimensionate; per contro, un analogo indice di titoli con forte esposizione verso le economie avanzate è in rialzo di oltre il 12% in vista di uno scenario in miglioramento per Giappone e Usa. Per i gestori di fondi, insomma, le azioni "China-sensitive" che tante soddisfazioni hanno dato in passato ora sono un grattacapo.
Se il settore del lusso ha già avuto contraccolpi dalla ventata moralizzatrice promossa dalla nuova leadership cinese, qualche giorno fa il premier australiano Kevin Rudd, in coincidenza con l’aumento della disoccupazione ai massimi da 4 anni, ha dichiarato: «La verità è che il boom delle risorse minerarie legato alla Cina è finito». Asserzione forse eccessiva, ma certo il rallentamento di Pechino ha già avuto conseguenze sui Paesi più dipendenti dalle commodity. Il che, però, può provocare vantaggi a nazioni povere di risorse, che beneficiano di prezzi più favorevoli.
Quando la locomotiva più veloce rallenta, però, altre potrebbero essere costrette a fare altrettanto, anche nell’Eurozona. Un report di Andreas Rees (UniCredit) pubblicato ieri focalizza l’attenzione sulla Germania: negli ultimi anni la Cina ha assorbito una quota crescente dell’export tedesco fino a diventare il quinto mercato di destinazione, con il 6,1% sul totale, molto superiore alle quote di Francia (3,3%), Italia (2,3%) o Spagna (1,6%). Una maggiore esposizione, insomma, che rende Berlino più vulnerabile di altri, anche perché non si tratta solo di export, ma anche di un’esposizione da maggiori investimenti diretti nel settore industriale, a parte poi quella indiretta attraverso l’effetto del rallentamento cinese su altri mercati. «Mentre l’impatto diretto sull’export tedesco è gestibile, un effetto moltiplicato e ben più forte potrebbe manifestarsi e alla fine l’economia tedesca potrebbe prendere una bella botta per vie traverse», afferma l’analista di UniCredit, anche se per lui l’entità di questi rischi nel contesto attuale resta difficile da identificare. Mentre l’export dagli Usa alla Cina finora è restato solido grazie ad alcune componenti-chiave poco cicliche come gli aeromobili, il Giappone appare ben posizionato per resistere all’impatto: con l’Abenomics, Tokyo sta cercando sia di spronare la domanda interna sia di accelerare sulle esportazioni attraverso uno yen indebolito. Inoltre uno shock-cinese è stato già subìto l’anno scorso, quando fu attuato un boicottaggio di merci giapponesi in seguito all’esplodere delle tensioni politiche bilaterali: così quest’anno la comparazione statistica parte da una base bassa e gli ultimi dati sull’export mostrano il segno positivo anche con Pechino.
Lo yen debole sta "ribilanciando" l’economia nipponica al di là della spinta all’export: fa del Giappone, ad esempio, un Paese di forte attrazione turistica. Nei primi 5 mesi del 2013 si sente ancora l’effetto-boicottaggio e i turisti cinesi sono in calo del 28%; tuttavia l’afflusso complessivo è in aumento del 21%. Un’eventuale accelerazione della frenata cinese potrebbe servire come alibi alle autorità di Tokyo per il caso che la crescita economica dovesse tornare a rivelarsi insoddisfacente e le pressioni deflazionistiche non scomparissero.