Gianni Trovati, Il Sole 24 Ore 16/7/2013, 16 luglio 2013
IL FISCO REGIONALE È SALITO DI 30 VOLTE
Trenta volte in quarant’anni. È in questa dinamica esponenziale, vissuta dal peso del fisco territoriale sulla ricchezza del Paese, uno dei colpi più duri assestati dai bilanci pubblici ai conti di imprese e famiglie. Una corsa, per di più, che è cresciuta di ritmo proprio negli ultimi anni, quelli del federalismo all’italiana. In teoria, la pressione del fisco regionale (protagonista per importi lontano dall’Erario) si attesta secondo i dati più recenti poco sopra il 5 per cento del Pil. Nel conto, però, occorre far rientrare anche la compartecipazione Iva, un’imposta che ha targa statale ma che per oltre la metà serve a finanziare la spesa sanitaria regionale. Nel 2000, quando il meccanismo è nato, finiva alle regioni il 27,5% del gettito, mentre l’ultima ripartizione, relativa al 2008 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 marzo scorso, ne dirotta sul territorio il 52,89 per cento. Di fatto, aggiungendo la compartecipazione Iva alle entrate regionali proprie, sui arriva a 138 miliardi e a una percentuale del 9% del Pil (nel 1970 era lo 0,3%).
L’esplosione del Fisco locale, non accompagnata da un dimagrimento almeno equivalente di quello nazionale, è il primo frutto avvelenato lasciato in eredità ai bilanci di famiglie e imprese dal federalismo incompiuto all’italiana. E a peggiorare il quadro intervengono le prospettive, che puntano su nuovi aumenti. L’ultima regola nel campo travagliato della fiscalità locale è freschissima ed è arrivata nel decreto «Iva-lavoro» approvato dal Governo Letta, che ha fatto spuntare fra i commi anche la possibilità per le Regioni autonome di aumentare di un punto l’addizionale Irpef dall’anno prossimo. La stessa chance, lontano dai territori a Statuto speciale, è stata offerta dal decreto sulla revisione di spesa del luglio 2012 alle Regioni impegnate nei piani di rientro dall’extra-deficit sanitario, con il risultato che dal 2014 l’Irpef dei Governatori potrebbe arrivare al 3,33% (3,63% se scattano anche le super-addizionali, quando il piano di rientro non basta a tenere a bada il rosso accumulato da Asl e aziende ospedaliere) in 11 Regioni e due Province autonome, dove vivono 21,4 milioni di contribuenti (il 52% del totale). Anche per gli altri, però, non ci sarà troppo da aspettare, perché le regole del federalismo regionale (decreto legislativo 68/2011) prevedono la stessa possibilità generalizzata a partire dal 2015, dopo uno scalino che nel 2014 può portare l’aliquota al 2,33 per cento.
L’allarme era stato rilanciato nel settembre del 2012 dal Sole 24 Ore, che mentre tutta l’attenzione si concentrava sulle varie «rimborsopoli» esplose a partire dal Lazio aveva fatto i conti degli effetti, molto più dirompenti, prodotti dall’evoluzione disordinata di entrate e competenze centrali e locali: nei primi anni Novanta il Fisco regionale pesava intorno allo 0,7% del Pil, mentre a fine 2010 aveva sfondato quota 4,91% e nel 2011 è arrivato al 5,1 per cento. Un’evoluzione in parte ovvia, perché con le prime riforme e poi soprattutto con il nuovo Titolo V della Costituzione le Regioni avevano aumentato in modo drastico le proprie competenze, e di conseguenza le esigenze di finanziamento: peccato però che nel 2001, anno di nascita del nuovo Titolo V, i tributi erariali, cioè quelli che finiscono allo Stato centrale, valessero 342,5 miliardi di euro, e che dieci anni dopo, invece di diminuire per compensare l’irrobustimento regionale fossero volati a quota 445 miliardi.
Lo stesso gioco delle tre carte, con le competenze che scendono di livello senza alleggerire il peso fiscale del piano superiore, è avvenuto in scala anche nei rapporti fra Regioni, Province e Comuni, spiegando una parte del vigore fiscale registrato anche dalle parti degli enti locali. Un processo, quest’ultimo, che si è «compiuto» con l’Imu, che nella versione 2013 fa uscire completamente lo Stato dal finanziamento degli enti locali mettendolo integralmente a carico dei contribuenti.
Il tasto da premere per provare a invertire la rotta è naturalmente quello della spesa, come dimostra qualche altro numero. Fra 2002 e 2010 (ultimi dati confrontabili a disposizione) i compiti delle Regioni non sono cambiati perché a regolarli rimane il Titolo V, ma la loro spesa ha continuato a correre: il tasso di inflazione cumulata nel periodo è del 16,2% (dato Istat), ma come mostra per esempio uno studio dell’Università Cattolica su dati del ministero dell’Economia le uscite per il personale sanitario sono cresciute del 36,2%, quelle per la medicina generale convenzionata si sono gonfiate del 46,2% (e del 62,2% quelle per la specialistica), mentre il record nel ritmo di crescita spettano agli acquisti di beni e servizi con un +70,1%. Proprio su questi aspetti ha cominciato a concentrarsi la spending review dal 2012, che però deve ancora mostrare i risultati più consistenti sul piano pratico dell’attuazione.