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 2013  luglio 15 Lunedì calendario

FINISCE L’ERA DEL DENARO FACILE


Certe volte, bisogna semplicemente ascoltare una vecchia Buick. Quella che passava dalle parti di Wall Street l’altro giorno – marrone fiammante, probabilmente degli Anni 60 – non rombava solo con il motore. Grazie al tetto decappottabile, il vecchio leone della strada ruggiva con il suono metallico di «Final Countdown», la mitica canzone degli Europe.

Perché un signore di mezza età americano su una macchina d’autore stesse ascoltando i ritmi duri di un gruppo svedese degli Anni 80, nessuno lo sa. Ma il fatto che la voce stentorea di Joey Tempest cantasse del «conto alla rovescia finale» proprio vicino al tempio del capitalismo americano è un simbolo da non trascurare.

Siamo alla fine di un’era nella finanza ed economia mondiale o, quantomeno all’inizio della fine, come direbbe Joey. Il periodo del denaro a go-go, pompato da banche centrali in tre continenti sta per chiudersi e gli equilibri macro-economici che lo hanno accompagnato stanno incrinandosi.

Nei cinque anni che ormai ci separano dalla crisi finanziaria, tre pilastri hanno sorretto l’economia ed i mercati: gli Stati Uniti stampavano denaro, rendendolo appetibile ad investitori e consumatori con tassi d’interesse bassissimi; la Cina contribuiva con una domanda interna quasi insaziabile, che offriva mercati a beni, materie prime e buoni del Tesoro americano; ed il Giappone e l’Europa erano in panchina, incapaci di risollevarsi da seri problemi – atavici per il paese del Sol Levante e di più recente produzione nel vecchio continente.

Questo «sistema» imperfetto e abbastanza precario è servito a ricostruire, lentamente, le fondamenta dell’economia mondiale. Si è evitata la Grande Depressione stile Anni 30 e le tensioni sociali non sono esplose (la Grecia fa eccezione).

Ora però, si cambia. Ciò che emergerà dalle convulsioni dei prossimi mesi determinerà il cammino economico, e le dinamiche geo-politiche, del pianeta nei prossimi anni.

Come spesso accade, i mercati sono la cartina di tornasole. I movimenti piuttosto inconsulti delle ultime settimane – balzi sorprendenti seguiti da crolli pesanti – riflettono le paure, speranze ed incertezze degli uomini della finanza e del mondo delle imprese.

Per capire il perché, basta guardare ai tre pilastri.

In America, la Federal Reserve ha detto chiaro e tondo che smetterà di iniettare denaro nelle vene dell’economia mondiale nei prossimi mesi. C’è un po’ di dibattito sul quando, ma Ben Bernanke e i suoi colleghi non hanno lasciato nessun dubbio: la banca centrale americana si ritirerà dal mercato delle obbligazioni, lasciando gli investitori senza un compratore potente ed enorme.

In Cina, la nuova classe dirigente deve fare i conti con una crescita economica che sta evaporando come neve al sole. Dopo anni in cui il mondo – e miliardi di cinesi – si erano assuefatti a tassi di crescita di più del 10%, la locomotiva del pianeta sta rallentando verso il 7% o pure meno.

Lou Jiwei, il ministro delle Finanze di Pechino, ha sorpreso tutti questa settimana dicendo che il governo non ha problemi con una crescita di quel tipo. In realtà, i governanti cinesi sono preoccupatissimi perché hanno bisogno che l’economia cresca sempre e comunque per tenere a bada disoccupazione, dissidi tra ricchi e poveri e rivolte politiche.

Uno dei mercati più importanti ha già contratto la febbre cinese: con le fabbriche made-in-China in rallentamento, i prezzi di materie prime quali rame e platino sono crollati, mettendo fine ad un «super-ciclo» di prezzi in rialzo che durava ormai da anni.

Il Giappone, nel frattempo, si è risvegliato da un torpore decennale e sta tentando di tirare la propria economia fuori dalle sabbie mobili della crescita-zero. Shinzo Abe, il primo ministro con i capelli da rockabilly e le politiche populiste, sta spingendo la banca centrale a fare la Fed, stampando denaro e tenendo i tassi bassissimi.

L’unica che per ora non ha cambiato nulla è l’Europa, stretta tra la Scilla della recessione e la Cariddi di misure d’austerità necessarie ma anti-crescita. Mario Draghi fa quello che può – o quello che gli permettono i tedeschi – per rassicurare i mercati, ma la realtà oggettiva di un sistema economico-sociale in crisi profonda rimane.

I mercati stanno reagendo allo sbriciolamento di così tante certezze.

In America, le azioni salgono e scendono come uno yo-yo in mano ad un bambino che ha ingerito troppi zuccheri. I tassi sulle obbligazioni di Stato sono in crescita, aumentando i costi sia di mutui, carte di credito e prestiti ad aziende. E l’espansione economica rimane ostaggio di una disoccupazione ancora alta.

Il dollaro è il grande vincitore del salto nei tassi d’interesse Usa. La moneta americana sta spopolando nei mercati delle divise, a scapito di rivali in paesi emergenti quali il Brasile, l’India e la Turchia.

Anche il Fondo Monetario Internazionale è d’accordo. Questa settimana, l’Fmi ha ridotto le previsioni di crescita per i mercati emergenti per il 2013 dal 5.3% al 5%. Sembra poco ma senza i paesi dell’Est e del Sud – e con l’Europa nelle condizioni che sappiamo - sarà difficile per l’economia mondiale ricominciare a tirare.

Forse più che «Final Countdown», la colonna sonora di questo periodo potrebbe essere un’altro album, meno conosciuto, degli Europe: «Start from the Dark». Incomincia dal buio.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal e vincitore del Premio Ischia Internazionale 2013
Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72