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 2013  luglio 14 Domenica calendario

CON CALIMERO COMPIE 50 ANNI IL SIMBOLO DEL VITTIMISMO ITALIANO


D’ accordo, non è stato precisamente un evento della portata della presa della Bastiglia, ma il suo segno l’ha lasciato. Eccome.

Il 14 luglio del 1963, mezzo secolo fa, all’interno dell’originalissimo incubatore pubblicitario chiamato Carosello, irrompeva Calimero, che – lo diciamo per i più giovani – non era l’antenato modernista di un Tamagotchi (anche se proprio in Giappone ha finito per spopolare), bensì un «pulcino piccolo e nero», destinato a successiva fama imperitura. Faceva la sua comparsa negli spot a cartoni animati dell’azienda di detersivi e saponi Mira Lanza, penetrando poi con forza nell’immaginario popolare dei nostri connazionali, immersi da poco nelle sorti magnifiche e progressive del boom economico e della società dei consumi.

Nella Rai in bianco e nero, pedagogica e cattolica, e portabandiera di una visione molto austera e con qualche tratto ancora un po’ anticapitalistico (come racconta il recente volume Storia della pubblicità italiana del sociologo Vanni Codeluppi, Carocci, pp. 182, euro 20), Carosello si fa veicolo sobrio e «puritano», ma di grande successo, della promozione dei beni di consumo. Una specificità tutta italiana, che abbinava le merci a una serie di «scenette» ispirate ai generi dell’intrattenimento popolare (dall’avanspettacolo alla commedia all’italiana). Lo storytelling inanella le avventure di personaggi quali Topo Gigio, Caballero e Carmencita, l’ippopotamo Pippo e l’Olandesina. E, giustappunto, Calimero, nato quinto e – qui sta il «succo» della storia (e della sua parabola esistenziale) – poco (o per niente) amato dai genitori, la gallina Cesira e il gallo Gallettoni. Il pulcino nero dall’accento veneto – partorito dalla felice fantasia di Toni e Nino Pagot (il quale si sposò a Milano nella chiesa di San Calimero, da cui il nome) e di Ignazio Colnaghi (che prestò anche la voce nei primi episodi) – si è così impresso, in maniera indelebile, dagli anni Sessanta nella memoria di molti dei telespettatori. E ha seguito una traiettoria analoga a quella dei suoi «colleghi» degli spot di Carosello, tanto capaci di divertire ed emozionare chi li guardava da fare passare, non di rado, in secondo piano il prodotto che dovevano «spingere» – una delle ragioni principali, secondo alcuni semiologi e storici della comunicazione, del ritardo accumulato dal nostro Paese rispetto al resto dell’Occidente nel linguaggio pubblicitario.

Anche per questo si è allora autorizzati a guardare allo sfortunato Calimero come a un’allegoria del nostro spirito nazionale e a un simbolo in carne ossa (pardon, a disegni animati…) della psicologia collettiva degli italiani. Il suo claim – di fatto, un’autentica massima «filosofica» –, «Tutti ce l’hanno con me perché sono piccolo e nero… è un’ingiustizia però», molto ci dice di una componente tutt’altro che trascurabile dell’antropologia italica (se, generalizzando un bel po’, possiamo chiamarla in questo modo…). Ovvero, il vittimismo e il piangersi addosso, sentendosi oggetto di persecuzione (al limite del complottismo, o anche ben oltre), oppure al cospetto di qualche missione (immancabilmente) impossibile. Un atteggiamento che presenta un ampio ventaglio di esempi (con annesse retoriche) nella storia patria, dalla «vittoria mutilata» allo «schettinismo». La «sindrome di Calimero» colpisce, inesorabile, il mondo politico – dall’«ossessione per i magistrati» di Silvio Berlusconi al sempre crescente vittimismo a cinque stelle di Beppe Grillo e dei suoi e a quello diffusissimo in seno alla gens bossiana (dal patriarca Umberto al figlio Renzo detto il «Trota», sino alla famiglia allargata che annoverava, tra gli altri, Rosi Mauro e Francesco Belsito) – come quello dello sport (quanti allenatori e calciatori «vessati» dalla cattiva stella…), per non parlare del «jet set» del gossip (un nome su tutti: Fabrizio Corona). Eventi, fenomeni e individui per i quali scatta – altra specificità nazionale – l’immediata invocazione delle attenuanti, e il riflesso pavloviano del descriversi come capri espiatori, genere quelli che affollano le teorie di René Girard, mentre aleggia spesso, nei dintorni, l’assai discutibile «perdonismo». Esattamente l’antitesi, dunque, di quel Motivare è riuscire (come spiega l’omonimo libro dello psicologo Gian Vittorio Caprara, il Mulino, pp. 268, euro 18), che si fonda su elementi quali la visione positiva della vita e il possesso di una mente proattiva, lontani anni luce dall’autocommiserazione (e, invece, presenti, per fortuna, nella parte più intraprendente delle nostre bistrattate giovani generazioni).

Naturalmente – e non è poco – il nostro «brutto anatroccolo» rimane comunque simpatico, a dispetto della sua proverbiale fama di «figlio di un dio minore» (ribadita, nel 2000, persino dal premier Giuliano Amato, il quale, per difendersi dalle accuse di mancata crescita dell’Italia, negò recisamente che fossimo il «Calimero d’Europa»). Il pennuto made in Mira Lanza, in effetti, lo si può prendere da tanti punti di vista: e, così, il guscio che si porta in testa si converte in una sorta di prisma pop. Nel quale, accanto all’autocommiserazione, c’è pure qualcosa d’altro. Non a caso, il titolo della serie di film d’animazione della Mira Lanza recitava «La costanza dà sempre buoni frutti», un invito all’happy ending molto legato all’ottimismo di quegli anni economicamente affluenti. Tanto che, alla fine, il nostro piccolo eroe veniva salvato dall’Olandesina (e da «Ava bucato»), che lo puliva ben bene, «assolvendolo» con formula piena poiché soltanto «sporco», e non «nero».

Sorvolando – era un’altra epoca… – su quel pizzico di politicamente scorretto che vi si potrebbe ravvisare, gli sketch di Calimero vanno quindi visti, in definitiva, anche come un elogio della tolleranza e un invito ad accettare la diversità. E in questo nostro Paese, destinato a farsi via via più multiculturale, rappresentano un buon viatico vintage: meno autoflagellazioni (e facili giustificazioni) e più contaminazione. Parola di un ex brutto anatroccolo diventato non un cigno, ma almeno un bel pulcino.