Eugenio Occorsio, Affari&Finanza 15/7/2013, 15 luglio 2013
ANDREAS VGENOPOULOS L’ARDITA ASCESA E LA ROVINOSA CADUTA DEL NUOVO ONASSIS
Che notte, quella del 15 ottobre 2009. Andreas Vgenopoulos ha appena comprato dal governo greco, che comincia a dibattersi nella più drammatica delle crisi che l’Europa avrebbe mai vissuto, la compagnia aerea Olympic Airlines. L’ha pagata 180 milioni di euro, prezzi da saldo per il suo fondo di private equity Marfin Investment Group che in quel momento ha da spendere pronta cassa oltre 15 miliardi. Era il terzo tentativo di privatizzazione, e il fatto di esserne stato il protagonista ha fatto diventare Vgenopoulos un eroe nazionale, il capitano coraggioso che da solo si alza per aiutare il suo Paese sulle orme di un’altra gloria come Aristotile Onassis che la compagnia aveva fondato negli anni ‘50. E stanotte il “capitano” vuole festeggiare la rinascita della Olympic alla grande (letteralmente: l’invito recapitato a mano, racconta chi l’ha ricevuto, era un cartoncino 50x50 cm). Così, bando ai risparmi: 12mila invitati nell’immenso hangar dell’aeroporto Eleftherios Venizelos di Atene. Tutti seduti, una distesa sconfinata di tavolini disposti in mezzo agli aerei ripitturati di fresco, con l’aria solcata per tutta la serata dagli acrobati del Cirque de Soleil mentre scorrono fiumi di champagne, e per finire un recital live di Mikis Theodorakis.
Quantum mutatus ab illo, direbbe Virgilio. Oggi Vgenopoulos, avvocato di sessant’anni da una decina prestato alla finanza, ex schermidore che rappresentò il suo Paese alle Olimpiadi di Monaco del 1972, è visto in Grecia come uno dei peggiori avventurieri che ne abbiano mai percorso i mercati, causa non ultima delle sciagure del Paese al pari di un gruppetto di altri finanzieri spregiudicati. Lui ribalta le accuse e dice che la sua crisi personale è l’effetto del doppi collasso di Grecia e Cipro. Sta di fatto che il fondo Marfin è in rosso (2 miliardi di euro di perdite nel 2011 e 1,2 nel 2012) e per di più è sommerso dai debiti. La Olympic Air l’ha abbandonata alla disperata ricerca di un nuovo compratore (lui vuole venderla alla Aegean per metà del prezzo a cui l’ha comprata ma l’accordo è ancora lontano), la compagnia di navigazione Athika che aveva comprato sempre negli anni d’oro (nel 2007) è in pessime acque per usare un termine consono, le sue proprietà immobiliari sono svalutate, persino il Panathinaikos, la squadra di calcio che ha rilevato al massimo del fulgore nel 2008 (quante assonanze con il re dei tycoon nostrani) e con la quale si è tolto la soddisfazione di vincere un paio di campionati e battere Inter e Roma in Champions League, sta facendo una campagna di svendite di giocatori pregiati. Risultato: il fondo americano Fidelity, gli sceicchi del Dubai, una serie di shipping tycoon del suo Paese che gli avevano prestato soldi (questi ultimi in nome di un’amicizia stretta quand’era avvocato), tutti minacciano carte bollate sentendosi truffati. Qualcuno l’ha già fatto, di denunciarlo, tanto che la magistratura di Atene ha aperto un’inchiesta che però è stata in fretta archiviata.
Ma cos’è successo di tanto catastrofico? Cosa ha determinato una così brusca caduta? La risposta va cercata intanto nei diabolici meccanismi della crisi ellenica, che a questo punto sta dando ragione a chi sostiene che è molto più profonda di quando si ritiene ( vedere box). E poi oltre i confini della Grecia, ma non molto lontano: a Cipro. Dove è in corso un’altra istruttoria penale per truffa, malversazione, falsi in bilancio e conflitti di interesse (lo si creda o no pesantemente regolamentati nell’isola mediterranea): quest’inchiesta non è chiusa, l’ha intentata nientemeno che il governo di Nicosia, e gli esiti sono tutti da vedere. Questa storia di “infezioni reciproche fra i due Paesi” come l’ha chiamata la Reuters, parte da qui. E rivela un lato assolutamente inedito e inaspettato della doppia crisi greca e cipriota che sta avvelenando l’esistenza dell’euro: appunto il ruolo dei finanzieri privati nel far precipitare i Paesi in crisi solo apparentemente “sovrane”. E finché questo ruolo non sarà chiarito, l’Europa non potrà dormire sonni tranquilli malgrado il doppio pacchetto da 130 (nel 2009) e 180 miliardi (febbraio 2012) di aiuti in corso di elargizione ad Atene (la più recente tranche da 8,1 miliardi di euro è stata sbloccata dalla Troika il 4 luglio). Per non parlare dei 15 miliardi per Cipro di cui parleremo fra poco.
Succede che nel 2007, proprio alla vigilia della crisi finanziaria, Vgenopoulos compra con due partner la Popular Bank of Cyprus, Laiki in greco. La fonde con la sua Marfin Bank di Atene e il gruppo così composto, che mantiene il nome Laiki, si imbarca in una serie di speculazioni che ora sono al vaglio delle magistrature dei due Paesi. Per dirne una, grazie all’appoggio di Dora Bakoianis, potente ministra degli Esteri del governo di centro destra di Konstantin Karamanlis (è sempre stato vicino allo schieramento “Nuova democrazia” e, dicono, particolarmente vicino a questa ministra), gli riesce un proficuo scambio di terreni edificabili di proprietà del governo con altri suoi possedimenti vicino al monastero del monte Athos del tutto improduttivi. Ma soprattutto tramite il gruppo bancario, secondo le accuse, Vgenopoulos sistematicamente incanala i risparmi detenuti in abbondanza a Cipro sia da ignari cittadini locali che da opulenti oligarchi russi, in direzione del rifinanziamento a costi irrisori delle sue società riunite nella finanziaria Marfin. In modo non trasparente e del tutto fuori mercato. Non solo: con la liquidità del suo gruppo bancario compra svariati miliardi di buoni del Tesoro greco che cominciano a valere poco e quindi ad offrire cedole d’occasione.
Finché, il dramma. Di cui Vgenopoulos è secondo l’accusa una delle cause e secondo lui la vittima. I titoli greci crollano talmente tanto da finire fuori mercato. E nel 2011 arriva la mazzata dell’haircut: dei 3 miliardi di titoli greci che in quel momento le banche di Vgenopoulos hanno in tasca, non restano che 760 milioni. Nel frattempo tutte le società operative nei più diversi settori industriali, dall’edilizia allo shipping, finiscono in perdita perché la recessione in Grecia si prolunga e si approfondisce. Bisognerebbe rifinanziarle ma come dice un banchiere americano parafrasando la sigla del gruppo MiG, “money is gone”.
Non è finita. Nel 2012 scoppia la crisi di Cipro. E’ il colpo finale. Qui la posizione di Vgenopoulos si fa ancora più inquietante. La banca Laiki è una delle più colpite dalla crisi, deve intervenire il governo per sostenerla ma il bailout, insieme con quello dell’altra banca coinvolta, la National Bank of Cyprus, costerebbe una cifra pari quasi al Pil del Paese. Finisce che il governo di Nicosia lo butta letteralmente fuori, gli confisca la banca (aprendo una questione diabolica e ancora irrisolta sulla sequestrabilità della branch greca), la nazionalizza insieme alla National e alla fine ottiene quasi miracolosamente l’aiuto internazionale, i 15 miliardi di cui si parlava, per restare in piedi. Salvo rivalersi con Vgenopoulos per tutti i guai che secondo Nicosia avrebbe provocato. Un’ispezione congiunta presso gli uffici del gruppo bancario che era di Vgenopou-los, condotta ad Atene e a Nicosia da un gruppo di auditor ingaggiati dalle due banche centrali (è la prima iniziativa del genere presa dopo le accuse da parte della Troika di non aver saputo vigilare) ha dato risultati preoccupanti. «La politica di prestiti è stata condotta per molte centinaia di milioni in modo assolutamente arbitrario senza nessuna regolamentazione né alcun senso economico», si legge nel rapporto che la stessa Reuters ha anticipato la settimana scorsa.
Insomma, com’è lontana quella megafesta del 15 ottobre 2009. Maria Spassova, una giornalista che era stata invitata, ha raccontato su Gr Reporter, l’equivalente ateniese di Dagospia con la sua rubrica Kafonal, che ad un certo punto guardandosi intorno aveva domandato a un collega: “Ma questo ha invitato tutta Atene?”. E lui altrettanto sconcertato: “Macché, tutta la Grecia”. Ora tutta la Grecia gli si è rivoltata contro. E pure Cipro.