Federico Fubini, Affari&Finanza 15/7/2013, 15 luglio 2013
LE “INNOCENTI” ELUSIONI DI CORPORATE ITALIA
Quando a giugno Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono stati condannati a venti mesi per evasione fiscale, molti si sono chiesti se non fosse l’inizio di una nuova stagione americana in Italia. Dolce e Gabbana, che godono di una sospensione della pena, contestano le accuse e faranno appello. Ma la moda d’importazione dagli Stati Uniti stavolta non riguarda solo i jeans o le scarpe.
Riguarda le tasse delle multinazionali: è questo il terreno su cui si sta consumando la nuova sfida fra il mercato e i governi nell’era della crisi del debito sovrano.
Un’indagine del Congresso a Washington di recente ha fatto emergere i numeri di un fenomeno più vasto di quanto i piccoli contribuenti forse pensassero. Gruppi come Apple, McDonalds, eBay, Starbucks o Amazon tengono depositati all’estero, in regimi fiscali di vantaggio, circa mille miliardi di dollari. Rimpatriare quegli utili cumulati esporrebbe le multinazionali Usa a una sforbiciata da centinaia di miliardi da parte dell’Internal Revenue Service, l’equivalente americano dell’Agenzia delle entrate. Che quei fondi restino al riparo dal fisco è difficile da spiegare agli elettori di un paese in cui Warren Buffett, il secondo uomo più ricco, paga (dice lui) un’aliquota più bassa della sua segretaria. Apple, Google o Facebook hanno assoldato costosi lobbisti per convincere il Congresso a permettere sgravi fiscali per il rimpatrio degli utili oggi depositati in Irlanda o in qualche arcipelago dei Caraibi.
Niente del genere sta accadendo in Italia, almeno non sotto gli occhi di tutti. Non è in corso alcuna indagine parlamentare sugli utili delle grandi imprese italiane che riposano - legalmente - indisturbati all’estero. Non esiste una stima su queste somme o su quanto i grandi gruppi riescono a non pagare al fisco di Roma, peraltro senza infrangere alcuna legge o almeno cercando in buona fede di non farlo. Ma quando nel 2008 gli economisti Harry Huizinga e Luc Laeven hanno tentato una stima sugli utili che le multinazionali di ciascun paese sposta all’estero per motivi fiscali, l’Italia era seconda in Europa solo dopo la Germania. Secondo Huizinga il profit shifting (’spostamento degli utili’) delle aziende italiane vale 55 milioni di dollari l’anno. Ma senz’altro si tratta di una stima parziale e basata su dati vecchi, del 1999. Negli ultimi cinque anni, la Guardia di Finanza ha scovato e recuperato tassazione per 49,7 miliardi di euro da operazioni all’estero di imprese tricolori. E oggi chiunque si occupi di queste vicende sa bene che gli utili della corporate Italy mai rimpatriati dalla Svizzera o da Hong Kong valgono (almeno) altre decine di miliardi; ormai l’aliquota effettiva pagata da alcuni celebri gruppi italiani viaggia fra il 12% e il 15%.
In gioco non c’è in questo caso un’evasione in stile ’prendi i soldi e scappa’, da piccola impresa del Nord Est negli anni ‘70. Si tratta piuttosto di grandi manager che cercano di far leva sulle leggi in vigore, in Italia e altrove, per assolvere a quello che definiscono il loro dovere fiduciario: massimizzare i benefici per le proprie aziende e gli azionisti. Peraltro anche Dolce e Gabbana erano convinti di farlo, fino a quando sono stati citati in giudizio dal fisco. Prima di trasferire nel 2004 il loro marchio a una holding in Lussemburgo, che ne gestiva i diritti, il duo della moda aveva assunto pareri di avvocati e specialisti che li avevano (a caro prezzo) rassicurati. Anche Bulgari o Marzotto, che di recente hanno subito sequestri della Guardia di Finanza rispettivamente di 46 e 65 milioni, sostengono di essersi mossi nelle regole. E così è stato anche per Seat Pagine Gialle, quando nell’agosto scorso ha risolto un contenzioso con il fisco per le attività finanziarie all’estero della sua controllata Lighthouse.
Casi come questi rivelano quanto fra legalità e evasione rischi di aprirsi un’area grigia, una sorta di campo minato in cui le multinazionali e il fisco cercano di battere la controparte e ottenere un vantaggio. Le stesse tecniche più diffuse per minimizzare i tributi diventano regolari o meno in base ai casi e alla loro interpretazione. È senz’altro così per uno dei canali di risparmio fiscale più diffusi in Italia, il trasferimento di parti importanti dell’azienda - e dei ricavi tassabili - sulla Svizzera. Per esempio Zegna (che non ha subito contestazioni) lo ha fatto fin dagli anni ’70, all’epoca anche per garantire la sicurezza della famiglia azionista dal rischio di rapimenti o del terrorismo. Certo le amministrazioni elvetiche offrono diversi vantaggi. Il più ovvio riguarda l’aliquota di base sulle imprese che colpisce gli utili al 21% contro la somme del 27,5% dell’Ires più il 4,25% dell’Irap (totale 31,75%). Gli utili maturati oltre confine possono poi essere rimpatriati e goduti in Italia sotto forma di dividendi sottoposti a un prelievo, straordinariamente basso, dell’1,375%. È così che le strutture fiscali fra i due Paesi, con un vantaggio del 9% circa per chi va nella Confederazione, incoraggiano i manager a sottrarre posti di lavoro da questa parte delle Alpi e portarli sul versante Nord. Il fisco può contestare l’operazione se l’attività costituita in Svizzera risulta solo di facciata.
Fra Italia e Svizzera esiste poi un sistema di ’risparmio’ fiscale più raffinato, che invece incentiva a non riportare più gli utili in Italia. Anch’esso è popolare nel settore della moda. Con le autorità elvetiche l’impresa può infatti negoziare un’aliquota individuale più bassa in base al numero di posti di lavoro che intende creare, alla loro durata, o alla quota di ricavi maturati all’estero. Succede così che certi gruppi della corporate Italy pagano appena il 9% sugli utili, poi però non rimpatriano il resto: se lo facessero, sarebbero soggetti in Italia a un prelievo sui dividendi a tasso pieno del 27%. Di fatto, è un incoraggiamento per le imprese italiane a tenere i soldi in conti a Zurigo e a Ginevra - come tante piccole Apple - e a gestire da là la cassa e gli investimenti.
Un altro modo molto popolare di evitare il fisco italiano coinvolge le ’trading company’, le imprese commerciali. Si tratta di controllate di gruppi nazionali spesso situate in Svizzera o a Hong Kong. Società italiane della siderurgia possono acquistare la materia prima da oltre confine e poi venderla alla casa madre. Lo stesso avviene nel settore moda e lusso, ma in direzione opposta: la casa madre italiana vende la merce a una controllata di Hong Kong, che procede a piazzarla nei vari punti vendita dei mercati asiatici; l’utile sarà poi tassato sempre a Hong Kong, a tassi vicinissimi allo zero. Anche qui però non mancano i rischi per le imprese, perché negli ultimi anni la vigilanza delle autorità fiscali italiane si è fatta pressante: se una transazione infragruppo di capi di abbigliamento o di materia prima non è svolta a prezzi di mercato, ma a quotazioni volte a eludere le tasse, la Guardia di Finanza può intervenire in qualunque momento.
Stessi rischi per le società italiane, spesso non quotate in Borsa, che puntano a ridurre costi di finanziamento collocando bond da piazze come il Lussemburgo presso investitori - assicurazioni o fondi speculativi - con base in paradisi come le Cayman o le Virgin Islands. L’operazione estero su estero evita il prelievo del 27% sulle cedole che andrebbe pagato se un’obbligazione fosse emessa da Milano, quindi il costo di finanziamento per l’impresa emittente si riduce di altrettanto.
Ma anche qui Guardia di Finanza e Agenzia delle entrate controllano aggressivamente. Non sono infrequenti i casi in cui le Fiamme Gialle scaricano i server delle case madri, controllano le email e accertano che una controllata lussemburghese altro non è che una società di facciata con pochi addetti e poco qualificati.
Certo le imprese cercano di continuo di spingersi fino al limite delle regole, e oltre. Ma anche le autorità a volte forzano la mano: perquisiscono le aziende, poi presentano verbali per presunti livelli di evasione astronomici. Sanno che i grandi gruppi quotati non possono permettersi l’incertezza di lunghi contenziosi con il fisco e preferiranno una transazione, qualunque sia la solidità delle accuse mosse contro di loro.
Esistono anche aree più al riparo dall’aggressività della vigilanza tributaria. Per esempio il decreto del ministero dell’Economia del 4 febbraio 2002 elenca un certo numero di paradisi fiscali comunque sospetti, da Alderney nella Manica a Vanuatu nel mar dei Coralli; poi ve ne sono altri, Bahrein, Emirati Arabi o Kuwait, dove è tutelato solo il trattamento degli utili delle società del settore petrolifero. Incluse, naturalmente. quelle controllate dallo stesso ministero dell’Economia.