Arianna Finos, la Repubblica 16/7/2013, 16 luglio 2013
FAVINO - [IO BRAD FAMILY MEN, MA IL MONDO LO SALVA LUI]
«La mia generazione ha sempre chiesto il permesso, sbagliando. E invece bisognava fare ». Pierfrancesco Favino, 44 anni ad agosto, nell’ultimo decennio ha fatto molto e bene, disegnando una carriera che spazia con intelligenza tra cinema e televisione, opere d’impegno civile, blockbuster hollywodiani e commedie di qualità. Investendo, di tasca propria, nel talento italiano. L’attore romano, che nei cinema di tutto il mondo aiuta Brad Pitt a salvare la terra dagli zombie, porterà su RaiUno il caso Ambrosoli. E intanto produce l’opera prima di un giovane cineasta e prepara uno spettacolo teatrale con quaranta attori. A proposito di World war Z Favino racconta: «Per il mio ruolo cercavano uno spagnolo. Ma poi mi hanno fatto fare il provino e il regista Marc Forster mi ha scelto. Il mio è un ruolo chiave, ma a salvare il mondo ci pensa Brad Pitt. È giusto che sia così, io non sarei in grado. È stato bello avere l’opportunità di affiancare Pitt, che stimo come attore e anche per l’intelligenza e il coraggio delle sue scelte produttive. Umanamente Brad è piacevole e disponibile. Un padre di famiglia protettivo e accudente, proprio come si vede nel film. Io ho due figlie: essere family men è un terreno che ci accomuna».
World war Z dà una lettura politica a un blockbuster apocalittico.
«Il genere zombie per tradizione ha riferimenti politici, in senso ampio. Mi ha colpito l’idea di Forster di pescare dal mondo animale certi atteggiamenti degli zombie: una massa di formiche, insetti, cani in cui si trasformano i morti viventi. Mi provoca una sensazione agorafobica vedere le masse umane che si riversano nelle strade. È una percezione quotidiana, perché il pianeta si sta sovrappopolando. Quando ero a Londra per le riprese, la sera tornavo in albergo a piedi: camminando per Regent street ti viene l’idea che siamo tutti un po’ automi».
Qualche tensione un set da duecento milioni la regala?
«Il primo impatto con Brad Pitt, di spalle, è stato pavloviano. Come molti divi sul set c’è qualcuno che prova i movimenti prima delle riprese. Così quando, vincendo sudori freddi e tremarella, mi sono deciso a presentarmi a Brad, mi sono reso conto che il tizio di spalle non era lui. La cosa positiva è che quando il vero Brad è arrivato ormai avevo già rotto il ghiaccio. Sul set non sono mancati i momenti divertenti. Non certo la complicità irresistibile delle scene con Verdone e Giallini, ma qualche risata con Pitt ce la siamo fatta».
Nell’ultimo decennio la sua carriera internazionale marcia a ritmo costante. A settembre la vedremo in Rush di Ron Howard.
«Continuo a fare provini. C’è una certa attrazione esotica verso gli attori che non appartengono al mondo anglosassone. Con poche eccezioni, i ruoli dei latini sono di contorno. Ma non ho l’ossessione del protagonista. Non penso che oggi, anche se avessi la grande occasione in una grande produzione sarei in grado di coglierla davvero. Ogni piccolo ruolo, dalle Cronache di Narnia, a Angeli e demoni, mi è servito a raffinare la recitazione. Di certo oggi è molto cambiato il modo di relazionarmi a questo mondo dai tempi di Una notte al museo. Il problema non è solo stare su un set di mille persone, è anche davanti a una macchina da presa che ha stilemi narrativi completamente diversi. È come per il linguaggio: noi lo usiamo per farci capire fino in fondo, l’inglese è fatto per non far trapelare quello che senti davvero. Loro sono funzionali e meccanici, noi più espressivi. Noi amiamo la loro capacità di economia espressiva, loro amano la nostra passionalità. Mi ha fatto molto piacere, dopo l’esperienza in Angeli e demoni, la chiamata diretta di Ron Howard per il ruolo di Clay Regazzoni nel film che racconta la rivalità storica tra Niki Lauda e James Hunt. Ma non ho intenzione di trasferirmi fuori dall’Italia».
Anche perché ha molti progetti.
«Sì. A fine agosto inizio a girare il film Senza nessuna pietà, di cui sono anche produttore. Siamo in un momento in cui bisogna mettere insieme forze ed energie per far debuttare registi giovani. Credo nel talento di Michele Alhaique e nel suo film che esce dalla casella dei generi a cui è abituato il nostro cinema. E poi, con Paolo Sassanelli co-dirigerò un Arlecchino servitore di due padroni: quaranta attori in scena, stessa paga per tutti».
Ha appena finito le riprese di Qualunque cosa succeda su Giorgio Ambrosoli, il liquidatore del Banco Ambrosiano ucciso nel 1979 da un sicario ingaggiato da Michele Sindona.
«Sono molto contento che una vicenda così si possa mostrare su RaiUno, che si possa di nuovo parlare del caso Ambrosoli e quindi del caso Sindona, con tutto quello che comporta sul fronte delle ingerenze politiche che in un certo momento della nostra storia. E che questo possa essere fatto per il grande pubblico della televisione nazionale».
Cosa scopriremo su Ambrosoli?
«Penso che questa figura sia sempre stata circondata da una certa idea di rigidità, anche grazie alle persone che gli stono state vicine o a contatto nella banca dell’era Sindona. Mentre io credo di aver scoperto, o comunque voluto mostrare anche il lato fragile di un uomo con il quale condivido in modo assoluto il profondo senso della giustizia ».
La serie è tratta dal libro omonimo scritto dal figlio di Ambrosoli, Umberto. Vi siete incontrati?
«No. In genere cerco di non entrare nella vita delle persone. Non busso alla porta cercando di carpire dettagli. Perché in ogni caso quello che noi attori facciamo è un tradimento della realtà. Sempre. Ho letto e ho visto tutto quello che potevo su Ambrosoli, rispettando la sua famiglia».
Il caso Ambrosoli è già stato raccontato in Un eroe borghese di Michele Placido, con Fabrizio Bentivoglio.
«Non ho ancora visto il nostro film montato, ma la differenza fondamentale è che quella di Alberto Negrin è una miniserie in due puntate. Un diverso tempo di racconto, la possibilità di scandagliare di più il lato privato. Sono contento che a distanza di anni si possa riparlare di quella vicenda e dell’Italia anni Settanta».
L’impegno civile conta nelle sue scelte di attore?
«La verità è che sono argomenti e storie che mi appassionano profondamente. Raccontarle per me è un’esigenza profonda. Ma non ragiono mai a tesi. È una della piccole, belle funzioni che può avere questo mio mestiere: raccontare a un pubblico vasto una storia sconosciuta o un po’ dimenticata. Non credo che il cinema o la tv cambino il mondo. Ma se magari un ragazzino dopo aver visto il film s’incuriosisce del personaggio e della sua storia, è già un grande risultato».