Giovanni Pons, la Repubblica 16/7/2013, 16 luglio 2013
FUGA DEI MARCHI PER COLPA DELLO STATO LA BUROCRAZIA E LE TASSE CI SOFFOCANO
[Patrizio Bertelli]
Mentre Patrizio Bertelli era a San Francisco a battagliare contro gli americani per far valere i diritti di Luna Rossa, in Italia i fratelli Loro Piana cedevano alle lusinghe di Bernard Arnault e vendevano l’azienda al colosso francese Lvmh. Ora tutti stanno cercando un perché, una motivazione valida in grado di giustificare la fuga dei marchi made in Italy, ma è difficile trovare spiegazioni al di là della montagna di quattrini piovuta da Parigi. Prada, portata da Bertelli e dalla moglie Miuccia alla Borsa di Hong Kong e tra i big mondiali del lusso, potrebbe dare una scossa alla moda italiana. Dottor Bertelli, le aziende della moda a carattere famigliare sono destinate a essere vendute?
«La famiglia non può rappresentare un limite culturale, anzi. In Italia l’artigianato affonda le sue radici nella nostra storia e ha avuto un grande sviluppo nel Dopoguerra, dall’idea di un prodotto sono state create dal nulla tante aziende a proprietà famigliare. Senza questo know how non ci sarebbe un mercato del lavoro di un certo tipo, talmente qualificato da attirare interesse dall’estero».
E come mai a un certo punto le imprese della moda non riescono più a crescere e decidono di vendere?
«Credo che molto sia dovuto all’aria che ci circonda, non ci sono le condizioni per svilupparsi bene, serenamente, senza burocrazia. C’è un senso asfittico che circonda le aziende, uno stato d’animo negativo per chi vuole sviluppare nuove iniziative. A volte la decisione degli eredi nelle aziende famigliari è molto difficile, preferiscono vendere perché vedono davanti una strada in salita, difficile da percorrere. La complessità italiana fa paura».
Quindi il problema è che manca una politica industriale in grado di dettare regole e offrire una visione strategica?
«Facciamo un esempio, il cuneo fiscale. Da anni si parla di abbattere la differenza tra costo del lavoro per le aziende e stipendio netto che un lavoratore mette in tasca. Il governo Prodi del 2006 cercò di andare in questa direzione, poi più niente. Oggi siamo al punto che il potere d’acquisto di uno stipendio s’è ridotto di almeno il 20% in 10 anni».
Nessun governo è riuscito a reperire le risorse per ridurre il cuneo fiscale. È una motivazione valida?
«Il governo adotti una spending review seria sulle spese improduttive e riduca il cuneo, non si può aspettare oltre. Rimane troppo poco in mano ai dipendenti e i consumi interni si deprimono. Così il mercato italiano diventa asfittico e, se non si ha la dimensione e la capacità per crescere all’estero, si vende o si chiude».
In Francia sono cresciuti aggregatori di marchi del lusso come Lvmh e Kering che si stanno dimostrando vincenti. Perché in Italia non è possibile?
«In Francia c’è una politica industriale e del credito che favorisce gruppi di questo tipo, nessuno critica, si fa sistema. Quando 10 anni fa ho provato a fare lo stesso con Prada mi sono arrivate critiche da tutte le parti, poi quando l’indebitamento era cresciuto troppo siamo andati in Borsa con successo».
Ora siete liquidi e Prada ha conti in forte crescita. Non pensa di riprovarci? Anche perché il lusso rischia di concentrarsi in poche mani.
«Non credo possano esserci problemi di concentrazione, ci sono almeno cinque grandi gruppi, Lvmh, Gucci, Chanel, Hermès, Prada e l’ambiente è ancora concorrenziale. Adesso molti colleghi e rivali mi chiedono di fare il polo, invece io penso che dovremmo sederci tutti a un tavolo per vedere cosa fare».
L’ingresso in Borsa sembra essere l’unica alternativa alla vendita a un grande gruppo francese. Qual e’ il suo consiglio?
«Luxottica è l’unico esempio di successo di aggregazione di marchi, Renzo Rosso non ha la dimensione per fare grandi acquisizioni. Loro Piana necessitava di un salto di qualità. La Borsa rappresenta una buona strada per crescere accontentandosi di valutazioni più contenute di quelle che ti possono offrire i grandi gruppi, ma occorrono risorse manageriali importanti. Tuttavia per impedire un effetto a catena devi avere un forte senso di appartenenza, non un ambiente che disincentiva».
La Camera della moda di cui lei è diventato vice presidente vicario potrebbe essere il luogo del confronto tra aziende del settore?
«La Camera della moda deve essere l’occasione per dare nuovo slancio alle aziende del settore e favorire un confronto a livello internazionale. La parola “sistema” in realtà non vuol dire molto, piuttosto bisogna trovare il modo di dialogare e confrontarsi serenamente senza doppi fini. Bisogna eliminare la conflittualità».
Ha già in mente iniziative concrete da proporre ai colleghi?
«In primo luogo occorre risolvere i problemi di comunicabilità tra imprese e Stato. Non c’è collante, le aziende si sentono sole, isolate, senza prospettive certe. Gli imprenditori si sentono accusati di evasione fiscale mentre invece danno lavoro e devono avere un peso nell’economia nazionale. Bisogna anzitutto ricreare un clima di fiducia ».
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