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 2013  luglio 15 Lunedì calendario

SACCOMANNI, L’UOMO DI DRAGHI OBBLIGATO A DIRE SEMPRE DI NO

Nonostante l’amabilità della persona, pochi volevano che Fabrizio Saccomanni diventasse mini­stro dell’Economia. Non era nella lista di Enrico Letta, premier designato, che aveva indicato, pare, Pier Car­lo Padoan, capo economista dell’Ocse. Era perplesso Berlu­sconi che, dopo l’esperienza Monti-Grilli, non voleva un al­tro tecnico all’Economia. Meno che mai uno come Sacco­manni, direttore generale di Bankitalia, le­gato a filo doppio con Bruxelles e impolitico per formazio­ne. Il Cav, pur senza candidarsi, pensava piuttosto a se­stes­so come mini­stro, conside­randosi il più attrezzato per puntare allo sviluppo invece di im­pantanarsi nel rigore. Ai suoi occhi, in­fine, pesava su Saccoman­ni la vicinanza al Pd.
Si sapeva che non era un estremista ed era anzi noto come «l’esponente più a destra della corrente di sinistra della Banca d’Italia» ma concedere il ministero più importante ai concorrenti, in un governo di coalizione, non pareva sag­gio. È stato allora il presidente Napolitano a tagliare la testa al toro: ha troncato ogni di­scussione e imposto Sacco­manni.
Si capì dopo che, dietro a tut­to e tutti, c’era l’astuto zampo­ne di Mario Draghi, il presiden­te della Bce. È stato lui a volere all’Economia il suo ex braccio destro e a premere sul Quirina­le per questa soluzione. Il rap­porto tra Mario e Fabrizio è di vecchia data. Fu Draghi nel 2006, appena nominato gover­natore di Bankitalia, a richia­mare Saccomanni da Londra, dov’era vicepresidente della Bers, e a promuoverlo diretto­re generale. Il viatico di Dra­ghi è stato de­cisivo anche per l’assenso del Berlusca che si è fatto piacere Sac­comani per amore del pre­sidente della Bce. Il Cav, in­fatti, stima Draghi un pa­triota per la sua disponibi­lità all’acqui­sto dei titoli pubblici dei Paesi in difficoltà come l’Italia. Avrà così pensato che se Draghi sceglieva Sacco­manni era per avere un appog­gio in patria nella conduzione indulgente della Bce. In altre parole, si è detto: se Draghi è per lo sviluppo, il suo amico Saccomanni non sarà solo per il rigore. Altrettanto, avranno pensato Letta e il Capo dello Stato.
Sbagliavano tutti. Perché è vero che Draghi ha necessità di Saccomanni per la sua poli­tica antirecessiva della Bce. Ma in senso opposto a quello sperato da Letta, Cav & co. Essendo, infatti, sospettato dai tedeschi di lassismo filo italia­no, Draghi ha bisogno di un’Italia superdisciplinata che non sgarri di un millime­tro sui conti pubblici. Saccomanni è lì per questo. Per fare - tale il patto riservato tra i due - il cane da guardia dei parame­tri Ue. Solo così - pensa Draghi - si mette al riparo dalle criti­che di Bundesbank e può con­tinuare con la Bce a tendere la mano ai Paesi in difficoltà.
Fabrizio ci va a nozze in que­sto ruolo. Obbedire ai tecnicismi Ue è nella sua natura di economista della Banca d’Ita­lia, educato all’ortodossia li­bresca e con una forte repul­sione per le spavalderie della politica. Letta vorrebbe tanto, e con lui destra e sinistra, che Saccomanni, andasse a Bru­xelles - dov’è di casa - a battere i pugni per attenuare i rigori­smi percentualisti europei. Ma lui è incapace di spogliarsi dell’abito del tecnico per agi­tarsi come un politicante. Si considera un rispettabile eco­nomista, non un italiota col mandolino. Se però è questo che si vuole da lui, meglio la­sciare baracca e burattini, tan­to ha settant’anni suonati. Il centrodestra l’ha messo nel mirino per le sue resistenze a togliere l’Imu e frenare l’Iva, ma Saccomanni non può cam­biare natura. Come non si può, absit iniuria, spremere sangue da una rapa.
Letta, tutto questo, lo ha ca­pito. Tant’è che, se vuole dall’Ue qualche concessione, chiede a Enzo Moavero, il ministro per gli Affari europei, di andare a Bruxelles a trattarla. Lui stesso osa parlare di flessi­bilità e sconti fiscali solo in as­senza fisica di Saccomanni, per non vederne il sorrisetto ironico di romano bonaccio­ne che sembra dire: «Parla, parla, tanto non se ne fa nien­te».
Per riassumere: Fabrizio non è un ministro della Repubblica, subordinato al premier; è un fiduciario personale del presidente della Bce e un uo­mo della Banca d’Italia, dalla quale ha tratto tutto il suo staff, liquidando la vecchia struttura del ministero.
Bocconiano come Mario Monti e Vittorio Grilli, Sacco­manni è assai meno spocchio­so dei due. Ha la bonomia capi­tolina che punta al quieto vive­re. È amato dai giornalisti del circo Barnum dei summit G7, G8, G20 perché è il più disponi­bile a dare informazioni. È col­to, gran melomane e ghiotto­ne. Il suo inarrivabile modello è Draghi, di qualche anno più giovane. Ma mentre quello si mantiene snello con barrette energetiche, Saccomanni è preda di ogni tentazione culinaria e tende a ingrassare.
A 25 anni era già in Bankita­lia, con governatore Guido Carli che lo prese a benvolere anche perché il giovanotto si dichiarava vicino al Pri, di cui Carli, familiare di Ugo La Malfa, era una colonna. Fabrizio è rimasto repubblicano per tut­ta la Prima Repubblica per poi avvicinarsi all’attuale Pd. Car­li lo spedì a farsi le ossa al Fmi (1970-1975). A Washington in­contrò Lamberto Dini, che del Fondo era un pezzo grosso. I due legarono e quando Dini, nel 1979, divenne direttore ge­nerale di Bankitalia, Fabrizio trovò in lui un protettore.
La specialità di Fabrizio so­no i cambi e le monete. Con Carlo Azeglio Ciampi governa­tore affrontò le due grandi crisi della lira del 1985 (causata da una leggerezza dell’Eni) e del 1992 (per la speculazione mirata del magnate Soros) da cui uscimmo per il rotto della cuffia. Anche con Ciampi - per dire il buon carattere - creò un feeling. Così, nel giorno del suo settantesimo complean­no, Saccomanni gli dedicò un sonetto nei modi di Gioacchi­no Belli, il prediletto poeta ro­manesco. Ma il suo exploit let­terario più noto è una lettera satirica in inglese pubblicata sull’ Economist. Era successo questo. Il settimanale londine­se, ironizzando sull’imminen­te semestre Ue a guida italiana (1989), disse che sarebbe sta­to «come salire su un bus gui­dato da Groucho Marx». Anzi­ché prendersela per lo spirito di patata, Fabrizio buttò giù un’allegra ma puntuta rispo­sta su ciò che l’Italia avrebbe fatto nei sei mesi firmandola Groucho Marx. Per non so che vie, la lettera arrivò all’allora ti­tolare degli Esteri, Gianni De Michelis. Al ministro piacque e la spedì all’ Economist che la pubblicò a tutta pagina.
Per queste e altre beneme­renze, Saccomanni è stato spesso in procinto di diventa­re il numero uno di Bankitalia.
Sarebbe stato perfetto per un tecnico come lui. È invece fini­to in politica, che è come co­stringere un pianista a usare le mani delicate per impastare la polenta.