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 2013  luglio 13 Sabato calendario

CANCOGNI: “LA LETTERATURA NON DEVE SERVIRE A NIENTE”


Si potrebbe arrivare nella morigerata casa in viale Roma (Marina di Pietrasanta, a una pedalata dal Forte) sottobraccio a Montale. E Manlio Cancogni forse non si stupirebbe di riprendere una conversazione interrotta chissà quando, chissà in quale respiro di Versilia. Perché, fresco novantasettenne, volgendo verso il secolo, gli parrà tutto possibile, come valicare il tenue muro fra il mondo e l’altro mondo.

Cancogni ha inaugurato la nuova estate della sua vita riaprendo Stevenson, con un gusto e un abbandono fanciulleschi. Una vacanza dopo aver riordinato le concretissime divagazioni pubblicate su La Fiera Letteraria quando la diresse, dal marzo ’67 al dicembre ’68. «Se oggi sarebbe immaginabile un foglio simile? Se solo ci fosse un editore insensibile ai bilanci in rosso. Ai miei collaboratori davo centomila lire a pezzo, rispetto ai ventimila del Corriere della Sera ».

«Carpendras»: così firmava Cancogni le sue note «leopardiane», ossia intorno (talune, diverse) al carattere della gens italiana. Carpendras in omaggio a Petrarca, al suo villaggio provenzale. E ad Antonio Delfini, scomparso mezzo secolo fa. «Non era uno scrittore professionista, ancorché i racconti Il ricordo della Basca risaltino fra i migliori del Novecento. Disprezzava tutti. Era un capriccioso signorotto di campagna. La nostra amicizia finì causa la sua permalosità. Terminata la guerra, a Firenze, curavo un programma radiofonico invitando questo e quel letterato, un’occasione per racimolare un po’ di soldi. Io non c’ero, quando toccò a lui. Si offese perché non gli fu consentito di esprimersi compiutamente. Nessuna censura, se non che i tempi della trasmissione erano inderogabili. Uscendo, s’imbatté nel mio volto ridente. Credendo che mi burlassi della sua disavventura, si adontò, per sempre».

Einaudi, di Delfini, ha appena riproposto le poesie. «Chissà se facendogli un servizio», dubita Cancogni. I suoi poeti? «Caproni, Betocchi, Giotti, supremo Giotti. Montale, certo, l’ho ammirato molto, confermatosi di là del folgorante esordio, si riapra La bufera e altro . Si mostra - eccone il pregio - disinibito fino a che non scompare la Mosca, la moglie, donna intelligentissima. Ungaretti è L’Allegria , lì finisce o quasi. Saba è il ricordo di una passeggiata a Trieste, appena uscito Scorciatoie e raccontini . Non esitava: “Da cinque secoli, da Dante Alighieri, non vedeva la luce un libro simile”».

«Quest’anno la partenza delle rondini / mi stringerà, per un pensiero, il cuore...». Cancogni recita a memoria Saba. Ma non solo. «Combi, Rosetta, Allemandi, Bigatto, Violak, Grabbi, Munerati, Vojak I, Pastore, Hirzer, Torriani. È la Juventus che nel luglio 1926 pareggiò la semifinale con il Bologna del campionato di calcio. Nooooooooo! Non sono juventino, anche se, vedendo all’opera Platini... Mi capitò in un articolo di celebrare mezzo secolo di antipatia verso la Zebra. Agnelli, in risposta, mi invitò ad assistere a Torino, la domenica successiva, alla gara Juventus-Bologna. A sorprendermi non sarà il campo, ma la passione per l’Avvocato dei tifosi, in gran parte operai. Paradossale la città di Gramsci e dell’Ordine Nuovo!».

Cancogni spettatore. E Cancogni calciatore? «E’ accaduto. Una sfida tra liceali, il Tasso, sul rettangolo di Villa Torlonia: la Tiber, dove giocavano i figli del Duce, Vittorio e il mingherlino Bruno, e la Virtus, la mia squadra». Mussolini: «Come l’ho odiato. Perché servo di Hitler, perché trascinò l’Italia in guerra. Perché, prima ancora, si inabissò nell’avventura africana. Non a caso nelle corde dell’italiano, democraticamente analfabeta, amante del tiranno buono, finché è tale, o lo si percepisce come tale».

Il Ventennio... Nello sguardo professorale, ma refrattario a qualsivoglia pedanteria, di Cancogni, il plaid sulle gambe, a rifulgere è una vasta, irriducibile indipendenza, quale Carpendras scrutò in un eroe del Tour de France: «Affermava, clamorosamente, la libertà dell ’uomo di agire di suo arbitrio, contro ogni logica, contro ogni moda e magari contro il proprio interesse». «Il Ventennio, dunque. «Militai nel partito comunista, sino al 1943. Mai persuaso. Sapevamo che cosa succedeva in Urss, i processi del ’36, del ’37, del ’38, le grandi purghe, la fucilazione di Bucharin...Il comunismo - la Storia insegna - o è dittatoriale o non è. Mi volsi così - a orientarmi il sacrificio dei fratelli Rosselli - verso il movimento di Giustizia e Libertà, di lì approdando al Partito d’Azione. Dopo l’8 settembre, a Firenze, ne conobbi alcune figure, come Enriques Agnoletti, come Carlo Ludovico Ragghianti. La mia Resistenza consistette nel girare in bicicletta la Toscana, diffondendo la stampa di partito. Divertentissimo...».

Nell’ Orologio , il romanzo del Partito d’Azione, Carlo Levi dà la parola a Cancogni (in arte Casorin): «Parri è un padre. Un crisantemo. Un crisantemo sopra il letamaio». «Stimavo specialmente Parri presidente del Consiglio, che i comunisti faranno vergognosamente cadere. In seguito attenuando il mio fervore. Gli succederà De Gasperi, un politico che non avrà eguali nella parabola repubblicana».

La letteratura dopo la guerra. «Ovvero la sbornia neroealista. Si faceva (facevano) a gara a raccontare un ignoto mondo proletario. Io, in risposta, scrissi il romanzo della mia amicizia (anch’essa destinata a tramontare) con Carlo Cassola, Azorin e Mirò , inalberando il vessillo del disimpegno, mettendo al bando l’inautenticità. La letteratura non deve servire a niente. L’unico dovere del letterato è scrivere bene». Poi si manifesterà il Gruppo ’63: «Assolutamente sterile». Tra i suoi membri, Umberto Eco. «Ma non così intimo del Gruppo». Come lo recensirebbe su La Fiera Letteraria ? «Ha troppe carte in regola per essere uno scrittore di narrativa».

Carpendras pare condividere il giudizio di Saba: «La letteratura italiana sono secoli di noia». «Ma no. I due nostri pilastri, la Divina Commedia, il vertice in Occidente, e I promessi sposi, contraddicono il drastico giudizio. A proposito: è notevole Dante e il suo secolo di Indro Montanelli». Montanelli...«L’inarrivabile numero uno del giornalismo. La maggiore qualità? L’autonomia. Il difetto? Il toscanismo. Una vena di compiacimento,un sapore di pasta e fagioli, un che di casereccio, ma appena appena....».

Novantesette traguardi (che ispirano la «conversazione sulla libertà, la letteratura, la vita» Tutto mi è piaciuto , a cura di Simone Caltabellota, Elliot). Se non lei, Cancogni, chi può dire di aver letto «tous les livres»? «Eppure mi resterebbe la Recherche . Non che non l’abbia frequentata, ma non attraversandola per intiero. Un motivo c’è. Il francese di Proust è l’antitesi della lingua di Voltaire, di una mirabile asciuttezza».

Dirimpetto a Carpendras, i quadri di Mario Marcucci, amatissimo pittore viareggino, di un rigore, pure, morandiano. Sovviene il mai ingiallito addio di Manlio Cancogni al Maestro bolognese delle bottiglie: «Vedeva Dio con gli occhi del diavolo». Il secolo si avvicina, lo stile non vacilla.