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 2013  luglio 13 Sabato calendario

IL FUTURO SI CONQUISTA CON L’EXPORT


Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, recita la famosa frase del chimico-economista Antoine-Laurent Lavoisier. Applicandola al lavoro potremmo riproporla così: tutto si trasforma, molto si distrugge e, per ora, poco si crea. Creare lavoro si può e si deve, soprattutto in Europa e in Italia. Ce lo chiedono gli oltre otto milioni di italiani che rientrano nel limbo del «forte disagio occupazionale», i tre milioni di senza lavoro, i 2,2 milioni di giovani Neet parcheggiati nell’irrilevanza.

Il lavoro nel mondo sta crescendo, ma si riduce nelle economie mature. Per i neo-liberisti, il lavoro sarà figlio unico della ripresa della domanda; per i neo-malthusiani sarà orfano e crescerà solo riducendo le nascite; per i neo-keynesiani aumenterà solo al prezzo di massicci investimenti pubblici. Inutile oggi restare aggrappati ai propri steccati e continuare a produrre analisi ormai note. E’ arrivato il tempo delle proposte, delle terapie, dei rimedi possibili. La discussione è aperta: come creare lavoro in Italia? In verità se guardiamo più da vicino, di Italie ve ne sono almeno due, che attraversano il Paese: c’è l’Italia che va male, quella delle imprese che operano solo per il mercato nazionale, che soffrono la caduta di redditi e consumi; e c’è l’Italia delle imprese che operano sui mercati internazionali. Qui il lavoro da fare e da creare è aiutare le imprese domestiche a internazionalizzarsi e proteggere e sviluppare quelle che hanno come mercato il mondo. E’ l’export la prima carta su cui puntare per conquistare il futuro. Secondo l’Osservatorio Gea-Fondazione Edison, l’Italia è prima al mondo per competitività in tre settori: tessile, abbigliamento, pelli-calzature, e seconda, dopo la Germania, in altri tre settori: meccanica non elettronica, manufatti di base (metalli, ceramiche) e altri manufatti (occhialeria, gioielleria, articoli in plastica). Siamo una delle sole cinque economie (con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud) a vantare un surplus con l’estero per i manufatti non alimentari. Abbiamo 923 prodotti in cui occupiamo posizioni di primo piano nel surplus commerciale con l’estero. Siamo primi al mondo per attivo con l’estero in 239 prodotti; secondi in 334 e terzi in 350. L’eccellenza sono le quattro a: automazione, abbigliamento, arredo casa, alimentare, ma anche l’industria. Secondo il monitor Intesa Sanpaolo, i distretti produttivi stanno aumentando le esportazioni da tredici trimestri (più di tre anni): un centinaio su 150 vanno a tutto export. E potremmo continuare, non per ingenuo ottimismo, ma per scuotere l’autolesionismo che da troppo tempo ci rovina. Sul tema lavoro, dovremmo fare anche un’altra distinzione: ci sono le politiche per l’occupazione e le politiche del lavoro. I due elementi vanno concettualmente distinti, ma vanno messi insieme, perché possano agire in sintonia. In questi vent’anni abbiamo fatto riforme del lavoro al margine, senza intaccare le politiche per l’occupazione. Abbiamo creato lavoro effimero e a bassa produttività, nelle pieghe del vecchio modello di sviluppo ormai irreversibilmente in crisi. Un errore da non ripetere, tenendo insieme, e senza inutili primazie, le politiche per l’occupazione, per un nuovo sviluppo, e le politiche del lavoro, improntate a flessibilità e produttività. Per creare occupazione strutturale e stabile, va disegnata la nuova architettura industriale e dei servizi, a livello nazionale e locale, con la creazione di nuovi giacimenti occupazionali e nuovi distretti produttivi. Per creare lavoro, anziché dare aspirina a chi è malato terminale, dobbiamo riscrivere un’agenda delle priorità centrata sulla riduzione del cuneo fiscale: abbiamo gli stipendi netti più bassi d’Europa e il costo del lavoro più alto d’Europa. Le misure tecniche e contrattuali, poi, verranno. Servono, qui ed ora, la rete dei servizi al lavoro, pubblici e privati, coordinati da un’Agenzia nazionale federale; un’Agenzia per la creazione dell’occupazione; e, infine, una campagna culturale e mediatica, nel Paese e nelle scuole, per nobilitare il lavoro (bello, pulito, dignitoso) e tutti i lavori, intellettuali e manuali, anche quelli che gli italiani sembra non vogliano più fare.