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 2013  luglio 14 Domenica calendario

SU E GIÙ LUNGO LE SALITE DEL TOUR

Ogni anno, ai primi di luglio, sulle Alpi francesi si corre La Marmotte, una delle più dure granfondo di ciclismo al mondo che simula una tappa del Tour de France degli anni Cinquanta, quelle di Coppi e Bartali. Centosettanquattro chilometri di asfalto infinito e salite, salite con ben 5.180 metri di dislivello da superare, in verticale, attraverso quattro colli Hors Catégorie, dove si è fatta la storia di questo sport: il Glandon, il Télégraphe, il Galibier e l’Alpe d’Huez.
Quest’anno tra i 9mila iscritti, arrivati da 54 nazioni, ci sono anch’io. Uno spaccato di mondo, accomunato dalla passione per le due ruote. Alla partenza, subito dietro di me, c’è un gruppo arrivato da New York. Hanno bici italiane. Paul mi chiede di fare una foto assieme. Davanti intravedo la maglia nera di un ciclista neozelandese. Accanto a me un gruppo di toscani conciona allegramente per ingannare l’attesa e stemperare la tensione pre-gara.
Il primo colle da scalare è il Glandon. Ieri lo abbiamo percorso con il camper del mio amico Ernesto. Il mio amico, che guidava, all’arrivo era stanco. Oggi al posto del motore ci sono io, la mia bici, i pedali e le gambe da far girare. Il Glandon ha una pendenza media dell’8% con il picco del 15% in un breve tratto. Poca cosa rispetto a certe salite italiane: Mortirolo, Gavia, Zoncolan… Il problema - e me ne sto accorgendo a ogni metro che passa - è che le salite francesi sono interminabili. Da questo versante l’ascesa è lunga 25 km, 25 km senza mollare un attimo. Neanche di un metro. Zero. Si parte e si arriva su. Senza fermarsi mai. E questa è solo la prima delle quattro salite che dovrò fare oggi! Tengo duro. Mancano ancora otto km alla vetta. Il peggio, se ricordo bene la strada, dovrebbe essere passato. Stringo i denti e vado avanti al mio passo. Badando che il cuore non vada fuori giri. E facendo attenzione a non scontrarmi con le ruote degli altri ciclisti che mi sono davanti e di fianco. Ci sono tante cose da considerare, tante variabili in una corsa in bicicletta. Provare per credere. Il ciclista è un acrobata su un filo. Si muove sopra due ruote sottilissime, in un equilibrio instabile e dinamico come, in fondo, è instabile e dinamica la vita. Dalla partenza ad ogni arrivo, qualunque esso sia.
Da questo lato la salita è un lungo e faticoso crescendo. Negli ultimi due km la pendenza si assesta costantemente oltre il 10 per cento e comincia a far caldo, dannatamente caldo. Il Col du Glandon fu scalato la prima volta nel Tour del 1947. Il primo fu un polacco: Edouard Klabinski. Il belga Lucien Van Impe lo ha scalato per primo in tre Tour de France. Richard Virenque due volte, nel 1994 e nel ’97. Nel Tour del 2001 su questa salita Lance Armstrong, il texano miraculé, sopravvissuto al cancro, e già vincitore di due Tour (al veleno Epo) su questa salita ingannò Ian Ullrich, il gigante rosso cresciuto anche lui a pane e doping nella Germania dell’Est. I compagni di squadra del tedescone salivano a un ritmo indiavolato. Armstrong restò dietro al gruppo, sembrava lì lì per mollare. Fece finta di essere in una giornata no. Arrivò fino ai piedi dell’Alpe d’Huez dove scattò facendo restare con un palmo di naso il tedesco.
Mancano ancora tre colli da scalare e circa 130 km da percorrere con le mie gambe. Mi faccio largo tra la marea umana e le bici che occupano il piazzale del Glandon e cerco di riprendere appena posso la strada. La discesa è molto ripida e lunga, con il primo tratto strettissimo, senza parapetti ai lati. Non si può sbagliare traiettoria: si finisce sotto. Dopo un’altra trentina di km di lunghi rettilinei assolati della strada di valle arrivo a Saint-Jean de la Maurienne, il paese dove comincia la salita del Col du Télégraphe e poi del Galibier. Qui è arrivato il Giro d’Italia quest’anno. Ma nevicava. E faceva un gran freddo. Sono le 13. Ho una fame boia. E sete, tanta sete. Ma sul Télégraphe non ci sono ristori. E c’è ancora il Galibier da conquistare, fino su in alto a 2.642 metri, lungo la strada che sale sinuosa lungo 18,1 km (assieme al Télégraphe sono 35,5 km di ascesa). Una salita interminabile, con un dislivello di 1.241 metri. Continuo a pedalare in moto perpetuo,concentrandomi sullo sforzo, con la voglia di arrivare in fondo. Ma comincio a sentire la fatica. Mi sento svuotato e stanco, di una stanchezza antica. Un pugile suonato.
Nel corso degli anni questa montagna ha scoraggiato molti ciclisti. Anche campioni. Nel 1974 abbandonò Bernard Thévenet, due volte vincitore del Tour de France. «Il Galibier è un colle mitico, che ha sempre fatto paura a tutti perché è molto lungo, è molto duro ed è sempre stato selettivo», raccontò il campione francese.
Il Tour è passato da qui 59 volte durante la sua lunga storia. La prima il 10 luglio 1911. Il primo a percorrerlo senza scendere dalla bici fu Émile Georget: impiegò 2 ore e 38 minuti. Gustave Garrigou, vincitore del Tour quell’anno, definì «banditi» gli organizzatori per quella deviazione sulle Alpi.
Nel 1952 su questa salita avvenne il famoso episodio della borraccia: fu Gino Bartali a passarla a Fausto Coppi o viceversa? Mistero. E qui Marco Pantani umiliò Ullrich. Attaccò sul Plan Lachat, al ristoro dove oggi ho mangiato pane e formaggio. In quel preciso punto il Pirata, anno di grazia 1998, vinse il Tour. Aveva un distacco di oltre tre minuti dal tedesco che era in maglia gialla. Scattò. Uno scatto dei suoi. Le mani in basso sul manubrio, nella posizione dello sprint. La testa bassa, la smorfia di fatica che sembrava un sorriso… Gli scatti di Pantani, del primo Pantani, erano diventati una sorta di rito orgiastico di massa, come quando segna la nazionale in una finale dei mondiali. Si fermava l’Italia. Pantani scattò e percorse da solo i 47 km fino all’arrivo all’Alpe d’Huez, tra due ali di folla: «Salivo come un cieco, in mezzo a un mare di folla che si apriva davanti a me», raccontò. Ullrich arrivò al traguardo nove minuti dopo.
Il Galibier è agonia, sofferenza pura, dolore, voglia di mollare e mal di gambe. Nella parte alta il paesaggio diventa lunare con il cuneo roccioso del Gran Galibier e i suoi 3.228 metri. La strada si inerpica a zig e zag, come nei disegni dei bambini. E fa impressione da sotto vedere il punto dove dovrò arrivare. Mi accorgo che qualcosa non va, quando comincio a incontrare dei giovani ciclisti che, abbandonata la bicicletta sul bordo della strada, si allungano sul prato. Ce n’è più di uno che sale a piedi, spingendo la bici con le mani. Continuo a pedalare piano ora, cercando dentro i residui nascosti di forza per conquistare la cima. Dopo altri 40 km di discesa e pianura, tra panorami bellissimi, arrivo ai piedi dell’ultima salita che porta all’Alpe d’Huez: è lunga 13,1 km con un dislivello di 1.073 metri, una pendenza media dell’8,2% e massima del 12 per cento. L’Alpe d’Huez con i suoi 21 tornanti, le curve larghe quasi piatte, ideale per tirare il fiato, e il muretto in cemento sui bordi della strada, è forse la più famosa del ciclismo moderno.
Il Tour ci arrivò per la prima volta nel 1952. Vinse il campionissimo Coppi. Ma poi per anni da quelle parti la Grande Boucle non si vide più. Fino al 1976. Da allora è divenuta un appuntamento annuale ed è la montagna degli olandesi che hanno vinto otto delle successive tredici tappe. Nel giorno del Tour la strada non si vede più: si calcola che lungo i suoi tornanti ci siano mezzo milione di persone.
Fausto Coppi la saliva in 45 minuti. Il primo a scendere sotto i 40 minuti è stato Gianni Bugno, nel 1991. E molti dicono che quello è stato l’anno in cui l’Epo è diventato alla portata di tutti. Pantani ci mise 36 minuti, record ancora imbattuto, seguito da Armstrong che, qualche anno dopo, impiegò un pugno di secondi in più.
I puristi del pedale storcono il naso quando si parla dell’Alpe d’Huez. Ricordano i tapponi di un tempo in cui i corridori arrivavano da soli. L’Alpe d’Huez invece è la salita moderna per eccellenza, breve e micidiale. Ideale per le esigenze della tv, meno per la letteratura epica di uno sport che ha perso la sua anima, lungo una strada costellata di soldi e sponsor. Anima che non hanno perduto i 300 ciclisti amatori che in media ogni giorno, durante la bella stagione, affrontano questa salita. E anima che non hanno perso neanche i novemila della Marmotte che oggi, come me, sognano di terminare la loro impresa conquistando l’Alpe d’Huez.
Il primo tratto è il più duro. Si viene da quaranta km di discese e pianure e saliscendi con le forze che non ci sono più. La voglia di mollare che comanda sulla voglia di farcela. Io continuo. A ogni tornante però aumentano i ciclisti che incontro seduti sui muretti, stravolti dalla fatica. Sembriamo tanti fantasmi. Non so come ma vado avanti. In qualche tratto scendo anch’io dalla bici. Ma piuttosto che fermarmi continuo a passo e cammino per qualche centinaio di metri. E poi riprendo. Mi fermo e riprendo. I chilometri scendono da dodici a dieci e poi a otto, sei. Un lungo rosario da sgranare. Sto bene. Ma non ho più un briciolo di forza per muovere le gambe, pesanti come marmo ora. Mi do obiettivi intermedi: avanti fin lì e poi fino a quell’altro cartello. È incredibile davvero provare quanta forza ci sia dentro ognuno di noi. Quando non ce la fai più... Scatta qualcosa. E vai. Non so spiegarlo. Non senti più niente. Fatica. Dolore. Vai avanti. Continui nel tuo sforzo infinito. Solo cuore, per vincere sulla testa e sui segnali del corpo che a ogni metro ti gridano di mollare. Non mollo. E lentamente arrivo in cima. Svuotato come mai. Con una medaglia al collo. Con già la certezza che alla prossima Marmotte non ci tornerò. E una felicità lieve, leggera come piuma, per essere riuscito ad arrivare in fondo superando i miei limiti. Senza doping.