Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 14/7/2013, 14 luglio 2013
VACILLA IL MODELLO TURCO
Democrazia, tradizioni islamiche e boom economico: fino a poche settimane fa il modello Erdogan sembrava invincibile. E guai a mettere in dubbio i suoi svarioni in politica estera, come le previsioni sbagliate sulla caduta di Assad, le relazioni pericolose con i Fratelli Musulmani o quelle con Hamas.
A nche in Italia si rischiava di essere seriamente redarguiti dalla lobby filo-turca, affascinata dal nuovo sultano del Bosforo e dai buoni affari, che promette sempre un grande impegno per l’ingresso di Ankara nell’Unione, un club un po’ farisaico che non la vuole ma non ha mai il coraggio di dirlo. Altro che "mamma li turchi!", con Erdogan saremmo persino andati in guerra fiancheggiando un’opposizione siriana eterogenea, impopolare persino in Turchia, e travolta da un feroce conflitto interno con al Qaida. L’alfiere della sua politica estera, il ministro Ahmet Davetoglu, autore di un manuale di geopolitica imbevuto di mistica pan-turca, dopo aver enunciato lo slogan «zero problemi con i vicini», ha seminato più gineprai che soluzioni. Non solo Ankara è coinvolta in un conflitto nel cuore del Medio Oriente, ma ora si trova allineata con Teheran nella dura condanna del colpo di stato al Cairo: proprio quella Turchia già ossessionata dalla cospirazione sciita di ayatollah ed Hezbollah in Siria. Le teorie del complotto però non funzionano sui mercati. Dopo piazza Taksim e la crisi finanziaria, le accuse di Erdogan alla «lobby dei tassi di interesse» sono diventate il bersaglio delle ironie del Financial Times e del Wall Street Journal. Per meglio argomentare la tesi della cospirazione internazionale, sempre più di moda dopo il golpe anti-Morsi, Erdogan ha appena assunto come consigliere l’azzimato anchorman Yigit Bulut, il quale sostiene che «le potenze straniere stanno cercando di uccidere il primo ministro con la telecinesi». Siamo dunque arrivati al paranormale, sintomo forse più preoccupante e meno gestibile del fondamentalismo religioso e dei divieti sull’alcol. Il primo ministro, un autentico self made man, è stato assai abile nella sua ascesa, come sindaco di Istanbul e poi come organizzatore di un partito islamico moderato, l’Akp, capace di attirare non solo gli elettori religiosi, prima esclusi dal sistema, ma anche il centro borghese, le nuove classi imprenditoriali anatoliche, intercettando il cambiamento sociale sfuggito alle élite militari e kemaliste. Ha promosso la liberalizzazione economica e quella politica rimuovendo gli elementi antidemocratici dell’esercito e della magistratura, i due pilastri del "deep state", lo stato profondo. Ma dopo tre indiscutibili vittorie elettorali si è fatto prendere la mano per imboccare uno stile autoritario, con l’aspirazione nel 2014 di dirigere una repubblica presidenziale. Usando il pugno di ferro della repressione non soltanto non ha fermato le manifestazioni ma ha compromesso la sua fama di riformista: pur restando il politico più popolare del Paese rischia grosso e l’economia, il suo asso nella manica, potrebbe affondarlo. La Turchia, fino a un mese fa, era la beniamina degli investitori, attirati dalle prospettive di crescita e confortati da un’apparente stabilità. Le stesse agenzie di rating, che ora suonano l’allarme, cantavano come sirene le lodi di Erdogan. Un’insipienza provata più di tutte le immaginarie cospirazioni. Sulla scia delle tensioni sui mercati sollevate dal ridispiegamento annunciato dalla Fed americana, l’instabilità interna e la retorica del complotto hanno messo sotto pressione la lira turca e i tassi sul debito di Ankara. La moneta ha perso quasi il 10% sul dollaro dai primi di maggio, nonostante i 3,5 miliardi di dollari di riserve bruciate questa settimana dalla Banca centrale. I tassi sui bond a 10 anni sono passati al 9,54% e quelli a due anni sono saliti ancora di più, al 9,59% (il doppio rispetto a maggio), la Borsa di Istanbul in sei settimane è scesa del 23 per cento. L’aumento dei tassi sui bond a due anni è il segnale di quanto siano necessari capitali freschi - circa 5 miliardi di dollari al mese - per finanziare il deficit delle partite correnti in continua ascesa. L’economia turca ha molti punti di forza, un export diversificato, un sistema bancario risanato dopo la crisi del 2001 ma c’è anche il timore di una fuga degli investimenti esteri, vitali per l’economia e quindi per la tenuta di Erdogan. La sua popolarità è stata strettamente associata alle performance economiche, se fallisse in questo campo anche il modello si sfascia. Ingaggiando un braccio di ferro insensato con la piazza, è stato proprio Erdogan, non un complotto internazionale, ad assestare il colpo peggiore a una delle più brillanti economie mondiali. Ma sicuramente il suo nuovo fantasioso consigliere Bulut saprà confortarlo con qualche teoria del paranormale.