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 2013  luglio 15 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA STORIA DEL BIANCO ASSOLTO DOPO AVER AMMAZZATO UN NERO


REPUBBLICA.IT
NEW YORK - George Zimmerman non è colpevole della morte del giovane afroamericano Trayvon Martin. Lo hanno deciso i giurati dopo sedici ore di camera di consiglio al termine del processo in Florida. ’’La giuria ha parlato’’ è stato il commento del presidente americano, Barack Obama, all’assoluzione del vigilante che nel febbraio 2012 uccise con un colpo di pistola il diciassettenne disarmato. Obama, che ha definito l’omicidio di Trayvon una "tragedia per l’America", ha invitato alla calma, chiedendo ora il rispetto per la famiglia del giovane di colore e lanciando un appello per ’’una calma riflessione’’. "Dobbiamo ora chiedere a noi stessi se stiamo realmente facendo tutto il possibile per aumentare la comprensione reciproca all’interno della nostra comunità. Se stiamo facendo tutto il possibile per fermare la violenza delle armi che provoca la perdita di numerose vite in tutto il Paese, giorno dopo giorno. Se come società e come individui stiamo facendo tutto il possibile per prevenire tragedie simili in futuro", ha detto ancora Obama.
In serata il Dipartimento di giustizia americano ha reso noto che sta valutando se dalle prove relative al processo Zimmerman emergono violazioni dei diritti civili da perseguire. Questo - si legge in una nota - per stabilire se ci sono gli estremi per un procedimento federale.
Ma l’America si indigna. Un’ondata di manifestazioni già dalla notte e dalle prime ore del mattino sta interessando tutto il Paese: da Sanford, dove sono avvenuti i tragici fatti, a New York, Washington, Tampa, Philadelphia, San Francisco. Per il momento si tratta di proteste pacifiche e non si registra alcun arresto. I manifestanti - non solo afroamericani - lanciano accuse di razzismo e lo slogan più diffuso è "in questo Paese c’è giustizia solo per i bianchi".
Decine di migliaia di persone sono scese in piazza a New York - come in moltissime altre città d’America - per chiedere giustizia per Trayvon Martin. Per le strade della Grande Mela hanno gridato tutta la loro rabbia per l’assoluzione di George Zimmerman, urlando slogan come "No justice, no peace", oppure ’Who is guilty? All system is guilty (Chi è colpevole? Tutto il sistema è colpevole).
Un corteo pacifico è partito da Union Square per dirigersi verso Times Square: un corteo pieno di persone di tutte le età - molti i bambini - e multirazziale, composto non solo da afroamericani, ma da ispanici, asiatici, indiani. Arrivati nella piazza simbolo di Manhattan, i manifestanti l’hanno occupata sedendosi in terra e inscenando un sit in. Un cartello mostrava le immagini di un Trayvon bianco e di uno Zimmerman di colore. Sotto la scritta: ’Il verdetto sarebbe stato lo stesso?. Tutto intorno il traffico paralizzato, anche se molti degli automobilisti hanno solidarizzato con la protesta, unendosi agli slogan e suonando i clacson. Parecchi gli agenti di polizia dislocati lungo il percorso della manifestazione, ma loro presenza è stata discreta, nonostante la folla enorme che alla fine si è ritrovata radunata sotto le luci di Times Square.
Incidenti invece a Los Angeles, dove la manifestazione è degenerata in scontri con la polizia. Gli agenti hanno fatto uso di lacrimogeni e proiettili di gomma.
La sentenza. "Lei non ha più nulla a che fare con questa corte, è libero, può andare": con queste parole il giudice ha posto fine ad uno dei processi più appassionanti degli ultimi decenni di storia americana, seguito per settimane da milioni di persone in diretta Tv.
La vicenda. Zimmerman - che la notte del 26 febbraio 2012 a Sanford, in Florida, uccise con un colpo di pistola il diciassettenne Trayvon Martin, che era disarmato - ha sempre proclamato la sua innocenza, dicendo di aver sparato per legittima difesa dopo essere stato aggredito, negando ogni movente di tipo razziale. I giurati gli hanno creduto ed è stato assolto da tutte le accuse.
Le reazioni in aula. In aula Zimmerman, visibilmente teso al momento della lettura del verdetto, ha accolto la decisione rimanendo impassibile. I genitori di Trayvon, sempre presenti durante le udienze del processo, non erano stavolta presenti. Ma il padre ha affidato a Twitter i suoi pensieri. "Anche se il mio cuore è spezzato, la mia fede rimane intatta - ha detto Tracy Martin -. Amerò sempre il mio piccolo Tray. Anche se è morto so che lui è orgoglioso della lotta che tutti noi stiamo portando avanti per lui".
Critica anche il procuratore generale della Florida Angela Corey. "Le urla - ha detto il magistrato - si sono interrotte quando il colpo di pistola è stato sparato, per questo crediamo che quelle urla siano di Trayvon".

ARTICOLI SUI GIORNALI DI STAMATTINA
CORRIERE DELLA SERA
GUIDO OLIMPIO
WASHINGTON — Nel caso di Trayvon Martin ci sono due cose certe. L’uccisione del ragazzo afroamericano di 17 anni. E l’identità di chi ha sparato, George Zimmerman, 29 anni, americano di origine ispanica e vigilante volontario. Per il resto poco: nessun testimone, versioni contrastanti, indagine fatta con i piedi. Sopra tutto un macigno: la questione razziale. Alla fine la giuria, composta da sei donne di cui 5 bianche e riunita nel tribunale di Sanford (Florida), ha emesso il suo verdetto. Assoluzione, deliberata dopo appena 16 ore. Zimmerman ha agito per legittima difesa in risposta ad un’aggressione da parte del ragazzo. E la sentenza ha spaccato l’America, tra urla di sdegno «per lo schiaffo in faccia» soddisfazione di chi aveva denunciato un processo politico e timori di violenze.
Ripartiamo dai fatti. Il 26 febbraio 2012, Zimmerman, un poliziotto mancato che fa il volontario per vegliare sul quartiere, vede Trayvon vicino al complesso dove abita. Il ragazzo ha un cappuccio sulla testa, sta tornando da un negozio. Secondo l’accusato, invece, si comporta in modo sospetto. Zimmerman chiama il 911 e l’agente gli dice di restare in auto in attesa di una pattuglia. Ma lui disobbedisce, scende dalla vettura e segue Trayvon. Quello che accade dopo cambia a seconda delle versioni. Zimmerman afferma di essere stato aggredito. Mostra il naso fratturato, ferite alla nuca. Ha temuto per la sua vita, ha sparato. L’accusa rovescia lo scenario. All’inizio Zimmerman non è neppure arrestato. In Florida la legge sulla legittima difesa è molto ampia. La clemenza della polizia provoca proteste furiose, indaga l’Fbi, si muovono le associazioni per i diritti civili. Interviene lo stesso presidente Obama con una frase forte: «Se avessi un figlio sarebbe come Trayvon». L’11 aprile lo sparatore finisce in cella. Tutto è rimandato al processo-madre. Complicato.
Nessuno sa chi abbia cominciato per primo. Durante le udienze è trasmesso un audio, registrato sulla scena del crimine, dove si sente un urlo disperato. Le mamme di entrambi i protagonisti diranno: era la voce di mio figlio. In aula arrivano ricostruzioni al computer e con i manichini. I legali dell’accusato fanno di tutto per presentarlo come un mollaccione, che in palestra fatica poco e non è in grado di affrontare Trayvon. Chiedono ai giurati, di restare ai fatti, senza farsi suggestionare dal processo che si è celebrato all’esterno. Risponde lo schieramento avversario: Zimmerman lo ha preso di mira in quanto afroamericano, ha visto in lui «un problema» solo perché nero. Con cappuccio in testa e colore della pelle sinonimi di criminalità. E tutto aggravato dalla cultura delle armi.
Battaglia feroce vinta dalla difesa. E al giudice non è rimasto che dire: «Signor Zimmerman lei non ha più nulla da fare con questa corte». Gli hanno tolto il bracciale elettronico, probabile che gli restituiscano la pistola Kel-Tec PF9 usata per sparare. E’ previsto dalla Legge.
Non appena si è diffusa la notizia del verdetto sono nate proteste, qualche incidente a Oakland (California), con la polizia in stato d’allerta e appelli alla calma. Poi tanta rabbia, condivisa da alcune star. Per Rihanna «è stato il giorno più triste»; Michael Moore ha ironizzato: «E’ stato Martin a inseguire con la pistola Zimmerman». Il legale della vittima, Ben Crump, ha paragonato Trayvon a Emmett Till, il ragazzo linciato dai bianchi e non ha escluso di promuovere un’azione civile per investire il governo federale. «La giuria ha parlato — ha commentato Obama —. Ora chiedo di rispettare l’invito alla calma lanciato dai due genitori di Trayvon. Questa morte è stata una tragedia per tutta l’America. Chiediamoci se stiamo facendo il possibile per prevenire tragedie simili in futuro». Composti i genitori della vittima: «Abbiamo il cuore spezzato. Siamo increduli». Poi sono andati a pregare.
Guido Olimpio

PAOLO VALENTINO
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK — E’ stata una notte di rabbia. E’ stata una notte di sdegno. E’ stata una notte di protesta. Pochi minuti dopo la lettura della sentenza che ha assolto George Zimmerman dall’accusa di omicidio, manifestazioni e cortei spontanei si sono prodotti da una costa all’altra degli Stati Uniti. Migliaia di persone, soprattutto ma non solo afroamericani, hanno sfilato a Washington, Filadelfia, Chicago, St. Louis, Miami, Oakland, San Francisco, chiedendo «giustizia per Trayvon», l’adolescente che l’imputato uccise a colpi di pistola a Sanford, Florida, nel febbraio 2012.
Il processo ha diviso la nazione, mettendo ancora una volta a nudo la ferita inguaribile della sua divisione razziale. «La morte di Trayvon Martin — mi dice Jelani Cobb del New Yorker — è una tragedia americana, ma verrà percepita come una tragedia afroamericana. E che succeda in un Paese che ha eletto e rieletto un presidente nero, rende più ancora forte la disperazione provocata dal verdetto». «Questa sentenza — secondo Andrew Cohen, editorialista del mensile The Atlantic — ci ricorda quanto la questione razziale laceri ancora l’America, anche se non era compito del giudice Debra Nelson sanare la grande spaccatura».
L’ex direttore del New York Times, Bill Keller, mette però in guardia dal vedere troppe cose nel verdetto. «L’accusa — mi spiega al telefono — aveva un caso legale molto difficile da dimostrare: doveva provare che Zimmerman non ha agito perché temeva per la sua vita. Ma non c’è riuscita. La difesa ha saputo instillare nei giurati un ragionevole dubbio e questo, secondo le regole processuali, è sufficiente a giustificare un’assoluzione. Voglio dire che secondo me il verdetto in sé non ha avuto una motivazione razziale».
Ma il fatto che Martin fosse afro-americano e che solo per questo abbia insospettito Zimmerman, è stato la colonna sonora di tutto il processo.
«Non c’è dubbio. La cosa più interessante è stata la fascinazione pubblica con il caso, la copertura a tappeto dei media, i gruppi di interesse che sono saltati sulla vicenda, i sondaggi che mostravano come il sentimento popolare si sia diviso fedelmente lungo le linee della divisione etnica. E’ vero che nell’attenzione dei media c’erano anche aspetti non razziali, come le leggi assurdamente permissive della Florida sul porto d’armi. Ma il processo e le passioni che ha scatenato sono l’ennesima, potente dimostrazione di quanto la razza continui a dividere l’America».
Ne può citare altre recenti?
«C’è stato poche settimane fa il voto della Corte Suprema sul Voting Right Acts, la legge che negli Anni Sessanta rese effettivo il diritto di voto dei neri negli Stati del Sud. I giudici hanno detto che quegli Stati non devono più chiedere l’autorizzazione federale per cambiare le loro procedure di voto. Detto altrimenti, con una maggioranza conservatrice di appena 5-4, la Corte Suprema ha deciso che il Sud si è definitivamente messo alle spalle il suo passato razzista: c’è stata una sollevazione in tutto il Paese. Oppure prenda il dibattito in corso a New York sulla possibilità per la polizia di fermare e perquisire chiunque, ma in maggioranza sono sempre giovani ispanici e afroamericani, per combattere la criminalità di strada: una pratica che ha messo sul piede di guerra intere comunità. E ancora un’altra cosa: penso ci sia anche un elemento di razzismo nell’atteggiamento di ostilità preconcetta e nei continui attacchi politici della destra contro il Presidente Obama».
Nel caso di Trayvon Martin, Obama ha fatto riferimento indiretto a una componente razzista..
«Certo, è stato all’inizio, dopo l’omicidio, quando ha detto che se avesse un figlio, assomiglierebbe a Trayvon Martin. Ripeto, la cosa rivelatrice del caso Zimmerman non è tanto il verdetto, quanto le emozioni e le aspettative che tanti americani hanno proiettato nella vicenda».
Paolo Valentino

MAURIZIO MOLINARI SULLA STAMPA
La giuria di Sanford assolve George Zimmerman, esplode la rabbia degli afroamericani e Barack Obama lancia un invito a «calma e riflessione» per scongiurare violenze inter-razziali.
Il verdetto del tribunale della Florida è netto: «Zimmerman non è colpevole per la morte di Trayvon Martin». Dopo 16 ore e 20 minuti i sei giurati - tutte donne bianche - concordano sul fatto che la notte del 26 febbraio 2012 il vigilante ispanico sparò per autodifesa al 16enne afroamericano. Anche perché il procuratore non ha provato «oltre ogni ragionevole dubbio» la colpevolezza. «Lei non ha più nulla a che fare con questo tribunale» dice il giudice Debra Nelson, consentendo a Zimmerman di uscire dall’aula da uomo libero. L’ex imputato, che rischiava l’ergastolo, ascolta impassibile il verdetto, si limita a stringere le mani dei difensori, mentre la moglie Shellie piange di gioia. In aula i genitori della vittima non ci sono ma fuori dal tribunale in centinaia hanno atteso la sentenza sperando nella condanna. In gran parte sono afroamericani. Ritmano il canto «No Justice, No Peace» che nel 1992 accompagnò la rivolta di Los Angeles contro i poliziotti bianchi autori del pestaggio di Rodney King. La rabbia dilaga da Boston a Detroit, Baltimora, Chicago, fino a San Francisco. A Oakland gli scontri più duri: vengono incendiate alcune auto della polizia. Il simbolo della protesta è il cappuccio che Trayvon aveva quando è stato ucciso.
Nella Middle Collegiate Church di Manhattan il reverendo Jacqueline Lewis indossa un cappuccio rosa, incoraggia i fedeli a sfoggiare abiti simili e cita Martin Luther King: «Alziamo la voce contro queste tragedie». Nel centro di Tallahassee, capitale della Florida, i dimostranti gridano «Racism is not dead» (il razzismo non è morto) e «Who’s Next?» (chi è il prossimo?). A Sanford gli afroamericani si stringono attorno ai genitori del ragazzo nella chiesa di St Paul. È la ferita del razzismo che si riapre. Beyoncé interrompe il concerto dopo la sentenza, chiedendo un minuto di raccoglimento per Trayvon, il reverendo Al Sharpton parla di «verdetto atroce» e la stella dei «Giants» Victor Cruz scrive un twitter al veleno «entro un anno Zimmerman la pagherà» che poi cancella.
Per tutti parla Angela Corey, procuratore distrettuale, «Zimmerman era prevenuto perché Martin era nero». L’avvocato di famiglia, Benjamin Crump, teme l’escalation e parlando a nome dei genitori invita a «dimostrare dignità e disciplina». A prendere il testimone della battaglia legale è la Naacp, la maggiore organizzazione afroamericana, il cui leader Todd Jealous denuncia Zimmerman per «violazione dei diritti civili» puntando a un processo federale. Il ministero della Giustizia ha detto che riceverà il caso. Il sindaco di New York, Michael Bloomberg, si scaglia contro la legge della Florida «Stand Your Ground» che estende l’autodifesa all’uso delle armi «per non indietreggiare». Fra chi protesta molti invocano Barack Obama, che disse «Trayvon poteva essere mio figlio», e la Casa Bianca risponde con un comunicato del presidente: «La morte di Trayvon è una tragedia, dopo il verdetto le passioni aumentano ma siamo una nazione basata sulla legge, chiedo ad ognuno di rispettare l’appello alla calma da parte dei genitori. Dobbiamo chiederci come evitare simili tragedie». La cautela di Obama nasce dalla consapevolezza che c’è anche un’altra America. Quella che si riconosce nell’«hallelujah» dell’ultraconservatrice Ann Coulter su twitter come nelle parole del governatore del Texas Rick Perry: «La nostra giustizia non è razzista, la giuria ha deciso quanto riteneva giusto». [M. MO. ]

DERSHOVITZ ALLA STAMPA
MAURIZIO MOLINARI
«È stato un processo segnato dal razzismo ma ciò non toglie che George Zimmerman non poteva essere condannato»: parola di Alan Dershowitz, il giurista liberal di Harvard che nel 1995 fece parte del collegio difensivo di O.J.Simpson in un’altra battaglia legale che divise il pubblico sulla base del colore della pelle.
Perché Zimmerman non poteva essere condannato?
«Per la condanna serve la certezza della responsabilità oltre ogni legittimo dubbio. In questo caso tale certezza non c’era perché vi erano molti elementi a favore della tesi dell’autodifesa e cominciare da naso rotto e ferite alla testa di Zimmerman che fanno pensare ad un’aggressione».
La giuria composta di soli bianchi può essersi rivelata di parte?
«La giuria era composta tutta di donne che avrebbe dovuto essere più inclini a favore del giovane Martin. Se erano tutte bianche è perchè così ha voluto anche la procura, che ha partecipato alla selezione dei giurati assieme alla difesa».
In effetti alcune associazioni afroamericane accusano la procura di aver gestito male il caso, le imputano l’errore di non aver messo all’angolo Zimmerman sul razzismo...
«Un tribunale americano non condanna per razzismo e Zimmerman era sotto processo per omicidio di secondo grado. Sono due questioni differenti».
Ma lei crede che il caso legale sia stato segnato dal razzismo?
«Sì, certo. Se Trayvon Martin fosse stato bianco forse non sarebbe stato ucciso e se Zimmerman fosse stato nero forse sarebbe stato condannato. Il razzismo è presente nella società americana e lo è stato anche in questo processo».
Ci può allora spiegare perché il razzismo non ha pesato nel verdetto finale?
«Il verdetto si basa sulla legge. La legge tutela il diritto all’autodifesa. Le prove contro Zimmerman non erano sufficienti per condannarlo e neanche per processarlo. Con quello che il procuratore aveva in mano Zimmerman non sarebbe stato processato in nessun Paese del mondo, Italia inclusa».
Ora la Naacp, la maggiore organizzazione afroamericana, si propone di riaprire il caso denunciando Zimmerman al Dipartimento di Giustizia per violazione dei diritti civili. A cosa può portare?
«A una condanna di Zimmerman per violazione dei diritti civili ma non certo per omicidio».
Lei fu fra gli avvocati difensori di O.J.Simpson, cosa le è venuto in mente seguendo il processo a Zimmerman?
«Che l’aspetto simile è il riproporsi della contrapposizione fra tifoserie razziali, anche se a ben vedere nel caso di O.J.Simpson la partigianeria era più marcata perché gli afroamericani erano a suo favore indipendentemente dal verdetto sulle accuse contestate».
Quali saranno le ripercussioni dell’assoluzione, aumenteranno le tensioni razziali?
«L’America resta un Paese dove il razzismo c’è. La legge della Florida “stand your ground”, che consente il ricorso alle armi da fuoco per non indietreggiare, è razzista e dovrebbe essere abolita. L’ “ethnic profiling” delle persone è una pratica razzista e dovrebbe essere vietata. Fino a quando resteranno in vigore, il razzismo resterà fra noi portando a tensioni fra le diverse componenti della società. Ciò però non ha nulla a che vedere con la credibilità della giustizia, che si basa sulla corretta applicazione della legge che in questo caso non avrebbe dovuto neanche far arrivare Zimmerman davanti al giudice perché non c’era a suo carico alcuna prova degna di questo nome».

Ann Coulter L’opinionista conservatrice Ann Coulter ha commentato il verdetto con un sintetico ed emblematico «Hallelujah!»
Donald Trump Il magnate newyorchese ha difeso l’operato della giuria della Florida: ha agito bene, non aveva altra scelta

VITTORIO ZUCCONI SU REPUBBLICA
WASHINGTON
— Uccidere “Cappuccetto Nero” non è reato in Florida, se a sparare è un vigilante bianco. La ingiusta “giustizia razziale” colpisce ancora con l’assoluzione del giovane vigilante bianco che in Florida ammazzò un ragazzo nero di 17 anni colpevole di avergli fatto paura per il cappuccio della felpa sul capo. Anche se Obama ha invitato tutti «alla calma», finora soltanto qualche vetrina spaccata, un’auto della polizia rovesciata a Oakland, una tempesta di tweet sdegnati nel futile frullare dei cinguettii elettronici. Ma l’assoluzione di George Zimmerman che scaricò la sua pistola contro Trayvon Martin, armato soltanto di una confezione di caramelle non ha davvero sorpreso nessuno.
Più che collera è malinconia quella che ha acceso fuochi lungo i binari di treni qua e là. «Sono devastata dalla tristezza — ha twittato Sybrina Fulton, la madre di Trayvon — e mi affido all’amore di Gesù. In quest’ora buia so che il Signore è ancora in controllo». Ma il Signore non ha ascoltato le preghiere di Sybrina quando, alle nove e trenta della sera di sabato nel tribunale di Sanford in Florida, le sei donne che componevano la giuria tutta femminile hanno proclamato l’uccisore di suo figlio
not guilty,
non colpevole di omicidio in secondo grado, dunque non volontario o intenzionale. Lo hanno potuto fare grazie a una legge dello Stato della Florida
che ha esteso i confini della legittima difesa alla «percezione della minaccia», non soltanto a una minaccia diretta.
Per loro, l’aspetto di quel ragazzo nero con il cappuccio della felpa sul capo, i suoi spostamenti in un quartiere prevalentamente abitato da bianchi in un sobborgo di Orlando dove una serie di furti in casa avevano acceso la paura, il confronto con Trayvon, che l’avrebbe spinto a terra dopo avergli chiesto perché mai lo avesse seguito a lungo in macchina, furono minacciosi abbastanza per giustificare i colpi di pistola esplosi da Zimmerman, pattugliatore, aspirante Robin Hood, vigilante. La pistola era registrata e portare un’arma nascosta, come lui aveva nella fondina sulla schiena, in Florida è legale. In un’investigazione, e poi nel processo che ha occupato le network televisive per ore di diretta, più dei fatti, delle testimonianze, degli indizi, è stato lo scorrere sul filo rovente della «giustizia diversa per razze diverse» che ha attanagliato l’attenzione di milioni. Tutti i protagonisti, gli attori, gli spettatori, i media, il mondo della politica a partire da Obama sapevano benissimo quale fosse la domanda alla quale il processo avrebbe dovuto rispondere: Trayvon Martin, che non aveva fatto nulla di illecito, era una minaccia perché era un giovanotto nero in un quartiere bianco? La risposta è: sì.
Questo si chiama
racial profiling:
caratterizzare una persona in base al suo «profilo razziale»,
il
latino
lazzarone e pigro, l’italiano mafioso, l’uomo nero violento e criminale. E’ il meccanismo che spinge le pattuglie sulle strade a fermare e controllare identità e documenti di guidatori afro al volante di auto di lusso. E’ l’atteggiamento che aveva inquietato prima e terrorizzato poi George Zimmerman, nelle sue ronde volontarie, seguendo il ragazzo incappucciato e poi trovandoselo davanti, esasperato
per quel pedinamento.
«Trayvon Martin potrebbe essere mio figlio», era intervenuto anche il presidente Obama, quando, nei giorni successivi all’uccisione del 26 febbraio 2012, era intervenuto per smuovere la polizia e la Procura. La sera della morte di Trayvon — il suo uccisore era stato rilasciato dalla polizia dopo le medicazioni per i piccoli tagli alla nuca e il ricorso alla legittima difesa — la
comunità di colore della Florida, come i leader afroamericani e i media, erano insorti. Dopo 44 giorni, la Procura aveva finalmente aperto il procedimento che avrebbe portato al processo. Per la destra americana, e le sue voci nei media, era un processo politico, creato per soddisfare l’elettorato di Obama e le lobby di colore. Per gli altri era l’esatto opposto, confermato dalla domanda che il reverendo
Al Sharpton e i vecchi attivisti come Jesse Jackson ripetevano: se fosse stato un ragazzo nero a sparare e uccidere un giovane bianco di 29 anni come Zimmerman, se la sarebbe cavata con qualche domanda alla stazione di polizia e poi il rilascio?
Anche se sono trascorsi 50 anni dalle rivolte dei ghetti per l’omicidio di Martin Luther King, e più di 20 dalle sommosse di Los Angeles dopo l’assoluzione dei poliziotti che avevano
pestato Rodney King ed erano stati ripresi senza saperlo, la crosta del vulcano razziale sopra la lava rovente è sempre troppo sottile per essere disturbata. L’inchiesta e il processo, costruito su indizi fragili, sono stati fatti. E la ferrea verità dei tribunali è scattata: giustizia è quel sistema che deve decidere se sono più bravi gli avvocati della difesa o dell’accusa. Ieri, domenica, le chiese delle comunità nere sono rimaste aperte tutto il giorno, anche oltre le funzioni liturgiche, per accogliere, sfogare e incanalare pacificamente la malinconia, la frustrazione, l’amarezza di tanti. Soltanto a Oakland, la città che vide, e ancora vede, le esplosioni più dure di guerriglia razziale, sono volati sassi, manganelli e urla, più di rito che di sostanza. La famiglia di Trayvon ora promette di chiedere un processo per la «violazione dei diritti civili» del loro ragazzo ucciso, la stessa formula che permise di condannare gli agenti assolti a Los Angeles. Come George Zimmerman, un uomo libero, assolto perché ha avuto paura della nuova fiaba terribile di “Cappuccetto Nero”.
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FOTO:REUTERS
LA RABBIA
Proteste a Los Angeles (a lato) e Sanford (sotto) In basso a destra, George Zimmerman assolto in aula