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 2013  luglio 14 Domenica calendario

«SUI LIBRI CI HO BEN CAMPATO MA IL SOGNO ERA LA CRONACA»

Indro Montanelli lo volle al Giornale ad ogni costo. Gli diceva, scrivi quello che vuoi, basta che scrivi. Ci rimase dieci anni.
Manlio Cancogni (classe 1916), è nato a Bologna da genitori versiliesi, di cui ha conservato l’accento e la cantilena. Oggi vive a Fiumetto, a Marina di Pietrasanta in Versilia, dove è tornato dopo una vita negli Stati Uniti. Ha vinto il Premio Strega nel 1973 con Allegri, gioventù ma scrivere libri – ti dice al telefono – per lui era una noia. Ciò che gli dava invece un piacere genuino era fare il giornalista. Nel 1956, con un memorabile articolo sull’Espresso «Capitale corrotta, Nazione infetta», fu il primo a mettere il dito nel malaffare romano, quello dei palazzinari insomma.
Nei giornali vedevo la firma all’indomani
«Poter vedere subito il giorno dopo quanto avevo scritto qualche ora prima, mi dava un’emozione indicibile. E poi, col giornalismo, ci campavo, erano ben altri tempi. Con la letteratura non mangiavo mica». A novantasette anni ti aspetteresti un mezzo rudere, un essere cretaceo che ti sussurra al telefono. Invece è ancora un uomo vispo come una Teresa marzolina, con dentro la testa una lucidità chirurgica, giammai sopita. Se gli parli di Grillo, si accende: «Non so dove possa andare. E poi, che impari a vestirsi».
Si ricorda tutto, anche una partita di calcio del 1946, il 28 aprile, Torino – Roma, forse la più estetica e da colpo al petto della sua vita: «In sei minuti il Torino fece sei goal alla Roma. La schiantò in un battito. Finì sette a zero. Una partita di tremenda bellezza». Cancogni il tarlo uncinante dello sport se lo è portato addosso per tutta la vita, divisa equamente tra calcio, atletica, ciclismo e giornalismo. Tanto da garantirgli una specie di pacificazione – oggi – per un’esistenza in cui Tutto mi è piaciuto (Elliot, pagg. 61, euro 9,00 - Una conversazione con Simone Caltabellota); contemporaneamente esce anche l’antologia delle sue rubriche sul carattere degli italiani per La Fiera Lettararia degli anni’60 (Così parlò Carpendras, Elliot pagg..240, 19.50 euro). «Sono stato un uomo molto fortunato. Lo sono sempre stato. Mi è piaciuto vivere enormemente. E mica mi sono ancora adattato all’idea di dover chiudere, non mi va per nulla, ma insomma non c’è scampo, almeno pare!».
In tutti i suoi libri c’è sempre qualcosa di positivo, un clima di tutto fuorchè l’angoscia. «Mi fa piacere che mi dica questo. Le torno a ripetere che forse dipende dalla mia fortuna». Curioso come Manlio Cancogni – un monumento della letteratura italiana – sia approdato sulle sponde inclite di un giornalismo che anche lui ha contribuito a rendere quello nobile dell’elzeviro, dell’articolo in terza pagina, quella della cultura. Il suo Virgilio è stato Carlo Levi.
Dopo il confino era tornato a Firenze, «quell’uomo lì, che aveva più passione per la pittura che per la scrittura vera e propria, mi creda. Comunque. Carlo stava a Piazza Pitti, presso una certa Signorina Anna Maria Ichino. Scrisse lì, in quelle stanze, Cristo si è fermato a Eboli e a matita. Scriveva lunghe frasi di getto, senza apportare mai una correzione e le passava alla Ichino che gliele batteva a macchina. Io ero uno dei pochi privilegiati che potesse avvicinarlo. Quando si liberò un posto alla Nazione del Popolo – che era il giornale del Comitato di Liberazione Nazionale – Carlo fece il mio nome. È cominciata da lì la mia carriera da giornalista». Se gli chiedi cosa consiglierebbe ad un giornalista, non ha esitazioni: «Deve leggere tanti libri». Per uno come lui era facile. Ne leggeva uno al giorno. Lo sport gli ha stanato il giornalismo dalla sua vena, ma lo ha anche indotto, portato a peso verso la scrittura di libri memorabili.
Uno è il Mister (Mursia), una specie di racconto lungo, scritto in una lingua da accademia, e dedicato a Zeman. «Avrebbe fatto meglio a continuare a dedicarsi a squadre come il Foggia e il Pescara. Club che ha traghettato dalle tenebre verso il sole». Lo considera un fantasista che bada soltanto al sodo, uno che conduce un calcio tutto concretezza e basta.
E La Carriera di Pimlico, che uscirà nel 1956 nei Gettoni di Vittorini, una specie di gioiello dedicato ai cavalli, scritto a quarant’anni, l’età che considera forse migliore. Se gli chiedi quale sport considerasse di più nella sua vita, non batte ciglio, e ti dice subito l’atletica leggera. «Tanto che il mio sogno sarebbe stato di arrivare secondo alle Olimpiadi del 1936 a Berlino.Secondo e dietro il grande Jesse Owens, il più grande di tutti i corridori».
L’airone sui pedali affondava nell’aria
Ed un altro personaggio così completo come Owens ? «Fausto Coppi. Non c’è stato più un ciclista da godere con gli occhi come lui. Tenga presente che io ero per Bartali, ma Coppi sembrava davvero un cigno che danzasse sui pedali». Ed il calcio di oggi è davvero cambiato rispetto a quello di anni passati, come quello del 1946 ? «Giocano ormai tutti meglio. Oggi anche il giocatore più maldestro sa fare lo stop al volo. È la regola».
E Carlo Cassola ? «Gli ultimi tempi della sua vita mi ha per forza voluto pensare come un nemico. La fissa del disarmo lo aveva disturbato, era malato. Lui sì che pensava davvero alla letteratura come a un fatto mistico di eternità pura. Anche con lui abbiamo giocato a pallone. Mi è piaciuto anche quello».