Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 13 Sabato calendario

RENZO PIANO - “COSÌ IN MARE HO SCOPERTO IL VALORE DEL SILENZIO”


Anche di inverno, non appena riesce a ritagliarsi uno spazio libero, prende la sua barca a vela e va per mare. «Da solo con il marinaio, con i figli, con gli amici. La barca è il mio rifugio, il luogo del silenzio. Il mare per un ragazzo nato e cresciuto a Genova rappresenta le radici, quello che io chiamo il mio local. È quel mare scuro che si muove anche di notte, che non si ferma mai, come nella canzone di Paolo Conte», spiega Renzo Piano, che a 76 anni ha nello sguardo azzurro l’entusiasmo di quando ne aveva 18 e costruì con le sue mani la sua prima barca.
«Parlo del mare che invoglia alla fuga. Non è solo il mare romantico, non è solo la bellezza, non sono solo i suoni, gli odori, i colori, le vibrazioni, la luce del mare, il mare che ispirava Fabrizio De Andrè. C’è questo aspetto ma c’è anche l’aspetto più etico, quello della ribellione: il mare diventa il deserto al di là del quale andare a conquistare il proprio futuro.»

«Quando poi parti e vai in giro per il mondo come è successo a me, il mare ti resta intrappolato sotto la pelle. Diventa talmente intensa questa esperienza da segnarti per sempre: il mare, il porto, l’avventura, il mondo, queste grandi navi, queste grandi balene, questi Moby Dick, le navi che arrivano e ripartono: il mare diventa il tuo linguaggio. Per me è questo il mare, un ritorno alle origini che non ha nulla di retorico».
Incontriamo Renzo Piano sul campus dell’azienda Vitra a Basilea, elegante vetrina di design dei più importanti architetti del mondo, dove è venuto a presentare Diogene, l’unità abitativa più piccola del pianeta, non dissimile nello sfruttamento degli spazi da una barca.
E di barche e di mare Renzo Piano potrebbe parlare per ore: «Ne ho avute sei in vita mia. La prima l’ho proprio costruita con le mie mani, in garage: era lunga sette metri e alla fine non passava dalla porta. Le ho sempre disegnate io. L’ultima, il veliero che ho adesso, il Kirribilly, prende il nome da un golfo e da un quartiere di Sydney dove ho costruito una torre a forma di vela, è un nome maori, nella lingua degli aborigeni vuol dire luogo pescoso ». Come bandiera ha scelto la riproduzione di un quadro di Paul Klee del ‘38: «Una testa colorata, quando si muove nel vento un’immagine bellissima. Era uno straordinario pittore Paul Klee, uno che ritrovò se stesso e la gioia di vivere e il colore proprio sul Mediterraneo, in questa zuppa di culture».
È un Renzo Piano molto spirituale quello che incontriamo a Basilea. Che va a messa la domenica e parla di conventi di clausura e di Padre Pio.
«Certe esperienze mi avvicinano alla spiritualità, come aver disegnato le celle di questo piccolo monastero di clarisse a Ronchamp, uno spazio minimo di poco più di due metri dove le monache vivono secondo il loro motto, che è gioia, silenzio, preghiera. Questa dimensione religiosa è una dimensione che l’architetto non può ignorare al di là della propria personale storia: l’architetto deve essere capace di immedesimarsi in quello che fa. Sì, vado a messa la domenica, con mia moglie, e porto con me il mio figlio più piccolo, che ha 14 anni, e gli insegno che la musica di chiesa può sembrare fatta apposta per intimidire, che a volte è splendida e meravigliosa e altre volte è prepotente e fa paura. È un vivere l’esperienza religiosa in una maniera articolata, che va dall’interrogarsi con domande silenziose fino al ribellarsi».
Progettare la nuova basilica di Padre Pio ha lasciato un segno: «È stata un’esperienza molto complicata perché si è incrociata molto con i riti pagani della chiesa. A questa figura che non ho mai conosciuto, certamente straordinaria per semplicità e per forza umana e che è stata un pochettino idealizzata, si sono aggiunti i mercanti nel tempio. Un architetto vive tutto in maniera drammatica: certo che non cambi il mondo, ma ti ritrovi a testimoniare i cambiamenti del mondo, ti ritrovi lì a rappresentarli, a trasformarli in edifici. Di conseguenza l’architetto raramente vive in pace perché i cambiamenti sono sempre leggermente ansiogeni. E toccano anche interessi consolidati».
Biblioteche, campus universitari, stazioni, auditorium, aeroporti, grattacieli. Di fronte ai suoi progetti kolossal non gli è mai capitato, neppure una sola volta, di sentirsi inadeguato, di pensare per un momento: non ce la posso fare? «No non mi è mai successo di dire: adesso basta. Le confesso però che un paio di volte al giorno la domanda “come mai sto facendo questo?” me la faccio, soprattutto in ufficio. Lo chiedo a me e lo chiedo agli architetti che lavorano con me. L’architetto è una roba strana, è uno che deve fare delle scelte intuitive, scelte che hanno a che fare con il tema della bellezza, però il suo è anche un mestiere di militanza. L’architetto è uno che si intestardisce a cambiare il mondo a modo suo, fa anche delle cose folli».
C’è qualcuna fra le sue molte opere che rinnega? «Rinnegare no... Però c’è sempre qualcosa che manca ed è proprio questo che porta allo struggimento. Ma bisogna saperci convivere. Marguerite Yourcenar scrisse: bisogna accettare l’ansia di guardare nel buio».
Da ragazzo andava male a scuola: «Ero uno zuccone, mi hanno bocciato due volte, così sono cresciuto con l’idea fissa che dagli altri, tutti più bravi di me, in generale c’era da prendere, da imparare. Il nostro è un mestiere di rapina: rapina a viso aperto, a buon fine, perché prendi per dare.
È vero anche in musica, come nella letteratura del resto o nel cinema, e in ogni forma di arte: prendere a man salva e poi restituire, metabolizzare. Prendere non è copiare. Io passo le mie giornate guardandomi attorno. Ho sempre un foglietto di carta con me».
Lo tira fuori dalla tasca della giacca, le pagine sono piene di testi scritti con inchiostro verde. «Prendo appunti, prima di fine giornata ne ho riempiti quattro di questi fogli. Il mio amico Italo Calvino faceva la stessa cosa. Lui Le città invisibili lo ha scritto così, prendendo appunti, rubando alla realtà».
Racconta quando da ragazzo faceva lo scout. «Non proprio lo scout, il lupetto. Scout, anzi giovane esploratore, era il mio caro amico Gino Paoli, un po’ più grande di me. Quando io ho compiuto settant’anni mi ha regalato il suo cappellone. Cosa mi rimane di quei valori? Soprattutto l’importanza di essere una squadra, il lavoro di équipe, che mi sono portato dietro tutta la vita. Fare le cose insieme, senza tenere la contabilità dei propri successi. La condivisione, che è poi all’origine di una grande conquista: la tolleranza».