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 2013  luglio 14 Domenica calendario

ORGOGLIO XXL. VINCONO I CICCIONI

Bruttina, pallida, sgraziata ma soprattutto sovrappeso. La francese che ha espugnato Wimbledon, Marion Bartoli, ha fatto il pieno di critiche (alcune arrivate addirittura in diretta da un commentatore della Bbc poi costretto a scusarsi) per il suo aspetto fisico, ben lontano da quello di una Sharapova. Sui grassi pesa sempre lo stigma sociale (solo qualche settimana fa l’American Medical Association ha classificato l’obesità come malattia, con tutti gli strascichi polemici relativi a rimborsi assicurativi, interessi delle grandi aziende farmaceutiche, proteste del variegato movimento della «Fat acceptance»), eppure le taglie forti da un po’ di tempo sono protagoniste in vari campi.
Se in Italia Walter Siti vince lo Strega con il romanzo di un ex obeso diventato squalo della finanza e in America una scrittrice popolare come Lionel Shriver conquista la critica con Big Brother (dove il «fratello» non è grande ma grasso), in Rete si moltiplicano le curvy blogger che hanno detto addio a palandrane informi e tuniche copri-tutto e insegnano come esibire uno stile personale anche dalla taglia 48 in su, mentre cinema, musica e serie tv ormai da tempo propongono modelli che tracimano con soddisfazione dai canoni estetici più comuni, rigorosamente slim.

Così Lady Gaga si permette di mettere su qualche chilo senza dover fare pubblica ammenda e cantanti oversize come Beth Ditto, femminista pop leader dei Gossip, o la londinese Adele, vincitrice di un Oscar per la canzone di Skyfall, sono diventate muse degli stilisti e modelli di femminilità alternativa per i magazine. All’indomani della morte dell’attore James Gandolfini, il «Soprano» scomparso a Roma, mentre molti media ipotizzavano che proprio uno stile di vita poco sano avesse contribuito a condurlo a una morte precoce (51 anni), il sito culturale Salon.com lo ha celebrato come attore fat and sexy. D’altro canto le critiche in chiave salutista di Rex Reed del «New York Observer» all’attrice comica Melissa McCarthy, damigella XXL del film Le amiche della sposa, protagonista di uno show televisivo dal titolo My Mad Fat Diary («ha la stazza di un trattore», «è un ippopotamo» sono state le più benevole) hanno suscitato un’onda lunga di proteste che ha raggiunto anche l’Italia e spinto Giuliano Ferrara a farne una lettura filosofica sul «Foglio».
Grassezza e comicità sono spesso legate, ma Lena Dunham, nata nel 1986, cresciuta a Brooklyn, ideatrice, interprete e produttrice della serie Girls dove nel ruolo di Hannah sta molto spesso con il seno e la pancetta al vento ha fatto una vera e propria rivoluzione rendendo il suo sovrappeso non un elemento comico ma semplicemente un dato fisico come un altro, andando così ben oltre la trasgressione glamour di Sex and the City. A un suo sedicente fidanzato che le chiede se ha mai provato a perdere peso, in un episodio, Hannah risponde: «Ho altre priorità nella vita». E fa bene, perché per Dunham perdere oggi quei rotolini sul girovita sarebbe un passo falso nella carriera.
Come ricorda lo storico francese Georges Vigarello nel suo Le métamorphose du gras (Seuil) in cui analizza l’evoluzione del corpo opulento da simbolo di benessere nel Medioevo (e per vari secoli a seguire) all’ossessione per la magrezza di oggi, nella letteratura i grassi hanno sempre avuto cittadinanza, di solito come caratteri comici, pasticcioni, inclini a una certa sconsiderata allegria (spesso alimentata dall’alcol), a cominciare dai Gargantua e Pantagruel di Rabelais al Sancho Panza di Cervantes, al Falstaff di Shakespeare.

La macchina editoriale americana, sempre a caccia di etichette, ha creato un vero e proprio genere, la fat fiction, frequentato soprattutto da chi scrive libri per ragazzi, dove l’intento educativo (che sia il rispetto della diversità o i rischi della sregolatezza) è prevalente, e ha affidato alla chick lit di Bridget Jones (in autunno arriverà il terzo volume) ed epigoni il compito di rappresentare in modo ironico, mai veramente problematico, i turbamenti delle ragazze cicciottelle (che però, nonostante qualche bicchiere di troppo e la dipendenza dal cioccolato, alla fine trovano un fidanzato che sa apprezzare la loro bellezza, non solo interiore).
Il tema della grassezza è variamente declinato e, in mano a grandi scrittori, caratterizza alcuni dei personaggi letterari più potenti degli ultimi anni. Qui il focus non è l’obesità di per sé, ma l’obesità come filtro per raccontare un mondo, dinamiche sociali, la famiglia, l’integrazione o la nostalgia per una patria che a volte accoglie, più spesso respinge. È divertente, eccessivo, politicamente scorretto Misha Vainberg, il protagonista di Absurdistan, il romanzo con cui Gary Shteyngart è entrato tra i dieci migliori romanzi del 2006 secondo il «New York Times». Miliardario ebreo trentenne, obeso, fissato su cibo e sesso, figlio di uno degli uomini più ricchi della Russia, Misha è quasi un contraltare dell’Oscar Wao, protagonista del romanzo d’esordio di Junot Diaz (La breve favolosa vita di Oscar Wao), nerd diciottenne con la pettinatura afro ed enormi occhiali, figlio di domenicani emigrati nel New Jersey, divoratore di fantasy e di giochi di ruolo. E Amélie Nothomb, da sempre ossessionata dal peso, che spesso ha frequentato i territori dell’anoressia, recentemente ha voluto raccontare in Una forma di vita la bulimia di molti soldati reduci dall’Iraq.

Pure la narrativa italiana più recente ha messo su qualche chilo tanto che Francesco Longo sulla «Lettura» ha ironizzato che «se la qualità dei libri si pesasse sulla bilancia dei protagonisti, l’ultima annata letteraria sarebbe indimenticabile». Certo è che le pagine più felici di Resistere non serve a niente sono quelle in cui Walter Siti racconta l’infanzia e l’adolescenza del protagonista Tommaso. Bambino «attrippatello» («i suoi veri amici erano il budino Elah e i risotti già pronti; la mamma a mezzogiorno rimaneva in fabbrica, papà chissà dov’era»), a dieci anni pesa ottanta chili, a diciotto centosessanta, di notte tiene le brioche sotto il cuscino e usa il cibo come trincea che lo protegge dalle risate e dagli scherzi crudeli. A salvarlo, regalo per i diciotto anni da parte dei protettori mafiosi che hanno in pugno la sua famiglia, può arrivare soltanto la chirurgia in un ospedale svizzero, l’asportazione di dodici-tredici chili di grasso e il by-pass gastrico che gli fa perdere altri cinque-sei chili al mese, più gli interventi successivi necessari a eliminare la pelle superflua, una trasformazione che lo lascia con tre lunghe cicatrici sul corpo.
Il grasso superfluo è qualcosa da eliminare chirurgicamente anche per Marta Bonifazi, la protagonista della prima parte di Il mio paradiso è deserto di Teresa Ciabatti, ventiduenne di cento chili, ricca e rabbiosa figlia di un palazzinaro romano capace di far cadere un governo. Marta non esce mai di casa, è «la mancanza di desideri, tranne uno: la liposuzione» e finalmente uccide la cicciona che è lei stessa con un’ora e quaranta di intervento nel quale le aspirano il grasso da pancia, fianchi, sedere, cosce, ginocchia, polpacci, caviglie. «Come sono venuta?» chiede al suo amico Lorenzo, bendata come una mummia, appena finisce l’effetto dell’anestesia.
Chi non ricorre alla chirurgia, come la protagonista del romanzo di Matteo Cellini Cate, io (entrato nella longlist del premio Strega), obesa in una famiglia di «eroi della dismisura», non è detto che sia più o meno felice degli altri. Qui l’idea è che essere grassi può fare soffrire, soprattutto se si hanno sedici anni e si vive in una società che vuole tutte le ragazze veline, ma in fondo non c’è molta differenza tra grassi e magri, l’importante è come si guarda il mondo. Una consolazione, quella sì, magra.
Cristina Taglietti