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 2013  luglio 14 Domenica calendario

VENT’ANNI DOPO IL RISCHIO DEL «GRANDE VUOTO»

Si tratti della Russia nel 1917, della Germania nel 1945 o, più modestamente, della nostra «Prima Repubblica» crollata vent’anni fa sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, il modo in cui un assetto politico giunge al termine condiziona inevitabilmente i caratteri di ciò che lo sostituisce. Gran parte dell’odierna impotenza della politica italiana, gran parte dei limiti e dei vincoli che sull’attività di governo esercitano l’azione della burocrazia e delle infinite corporazioni italiane da un lato, gli interventi della magistratura dall’altro (dall’Ilva all’abolizione delle Province) rimanda appunto ai modi in cui crollò vent’anni fa il vecchio sistema dei partiti: non per un’azione che provenisse dai ranghi della stessa politica ma per la reazione della magistratura al verminaio di Tangentopoli. Una reazione che se non fu l’unica causa del crollo (si ricordino i referendum del ’91 e del ’93) fu però quella decisiva. Lo stesso Pd paga ancora oggi — con le convulsioni e i conflitti infiniti che lo attraversano — il fatto che a suo tempo il Pds non sia stato affatto il protagonista del crollo del vecchio sistema dei partiti, ma soltanto l’indiretto beneficiario dell’inchiesta di Mani Pulite.

Proprio per questo appare sorprendente che una parte dell’opinione pubblica di sinistra e dello stesso Pd coltivi esplicitamente o implicitamente la speranza di una eliminazione per via non politica dell’avversario Berlusconi, rappresentata dall’interdizione dai pubblici uffici grazie a una sentenza della Cassazione. Ove ciò avvenisse, infatti, il Pd non farebbe che sancire la propria debolezza politica, trovandosi, come già avvenne al Pds, nella posizione del «falso vincitore»; posizione appunto debolissima come sempre è quella di chi alla fine di una contesa rimane l’unico in campo, ma soltanto perché le circostanze esterne lo hanno liberato del competitore. La stessa capacità di leadership di Renzi ne verrebbe inevitabilmente minata, rendendo il sindaco di Firenze ostaggio delle oligarchie del suo partito. Soprattutto, la fine per via giudiziaria del ventennio berlusconiano lascerebbe in eredità al Paese una debolezza della politica e dell’azione di governo ancora maggiore di quella attuale, alterando più di quanto già non sia l’equilibrio tra politica e magistratura.

Il centrodestra attribuisce da sempre questa alterazione all’intervento di non meglio specificati «magistrati politicizzati», lasciando intendere di credere a qualche centrale più o meno segreta che ne dirigerebbe le mosse. In realtà, se l’equilibrio tra i due piatti di una bilancia si altera, questo può avvenire o perché il peso su un piatto aumenta o perché quello sull’altro diminuisce. Senza negare i possibili, e a volte probabili, sconfinamenti nell’azione svolta dalla magistratura a partire proprio dalle inchieste di Tangentopoli (e dall’incredibile frase «io quello lo sfascio» pronunciata dall’allora pm Di Pietro in riferimento a Berlusconi), è evidente però che lo squilibrio ha finito con l’essere accentuato dal progressivo ritrarsi della politica, dal fatto che gli esecutivi di destra come di sinistra si sono spesso mostrati incapaci di un’azione autonoma. In effetti la lunga transizione italiana difficilmente potrà terminare se la politica non ritroverà la capacità, smarrita da troppo tempo, di affermare le proprie ragioni e difendere i propri spazi.
Giovanni Belardelli