Osvaldo De Paolini e Oscar Giannino, Il Messaggero 15/7/2013, 15 luglio 2013
DEBITO E FISCO, SACCOMANNI HA LA FORZA PER CAMBIARE
È un quadro convulso, quello entro il quale si muove il governo in questi giorni, un quadro che rischia di dirottarlo dalla sua mission deconcentrandolo dalla prima vera grande emergenza: quella economica. A 75 giorni dalla sua nascita, più che di larghe intese il governo Letta rischia, sull’economia, di diventare un governo di lunghe attese. Slittamenti di decisioni - Iva, Imu, cuneo fiscale, privatizzazioni e altro ancora - la linea sin qui prevalsa è di una grande prudenza, giustificata forse dai riflettori puntati di Europa e mercati, ma che ormai deve cedere il passo a una stagione diversa. E c’è modo di farlo.
Proprio la politica economica e finanziaria ha un punto di forza, in questo governo. Per la sua autorevolezza maturata in decenni alla Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, il ministro dell’Economia, è per definizione, oltre che per natura, estraneo al conflitto tra Pd e Pdl. Inoltre è personalmente forte del sostegno diretto del Capo dello Stato oltre a godere di un rapporto privilegiato con il presidente della Bce, Mario Draghi. A poche settimane ormai dalla Legge di stabilità, che dovrà compiere scelte sin qui rinviate, è dunque venuto il tempo che egli giochi sino in fondo la carta di scelte energiche e coraggiose.
Se alle prime uscite del ministro i partiti sono stati molto decisi nel ricordargli che la stagione dei tecnici è finita, la cosa peggiore da parte sua sarebbe accettare senza reagire una sorta di ruolo dimidiato. Al contrario, Saccomanni deve farsi sentire, a costo di mettere alla corda i miopi calcoli dei partiti e del loro piccolo cabotaggio. Convinti di questo, ci rivolgiamo direttamente al ministro. Saccomanni, insieme al nuovo Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco, anch’egli proveniente da Via Nazionale, conosce bene quale sia il diverso impatto sul prodotto nazionale di un intervento piuttosto che di un altro. In un’economia tanto prostrata da strage di imprese, lavoro e reddito come quella italiana, le priorità sono quelle che producono un maggior effetto moltiplicatore, non la convenienza dei partiti. Se si considera l’agenda del governo da questo punto di vista, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese è l’arma ad effetto più immediato, per mutare in meglio liquidità e aspettative del mercato. Ma sta al ministero dell’Economia comprendere che le procedure sin qui avviate per tentare di pagare 20 miliardi entro quest’anno si mostrano ancora troppo farraginose.
Le imprese non capiscono perché non si segue quanto per esempio proposto dal presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, che consentirebbe il pagamento in tre trimestri dei 75 miliardi di debito scaduto, sulla scorta di quanto la Spagna ha fatto con i suoi 32 miliardi di arretrati. C’è chi stima, forse esagerando, che un 30% delle migliaia di chiusure d’impresa avvenga proprio perché lo Stato non paga. Ma se si aggiunge che gran parte delle chiusure aggiuntive avviene perché lo Stato chiede troppo, sommando Irap, Ires, contributi e quant’altro, probabilmente il bilancio peggiora grandemente. La Legge di stabilità è chiamata a indicare una scelta: una nuova programmazione pluriennale di tagli di spesa non recessivi, da portare a copertura di una discesa effettiva nel tempo della pressione fiscale su impresa e lavoro. Dalle tax expenditures al Rapporto Giavazzi, dalle forniture sanitarie al costo standard esteso in tutta la Pubblica amministrazione, occorre un percorso alternativo all’aumento di altri 99 miliardi di entrate pubbliche tra il 2014 e il 2017 indicato dalla nota aggiuntiva al Def di aprile, precedente all’attuale governo.
Occorre poi pensare a una terza priorità: l’abbattimento del debito pubblico. Il 2015 si avvicina, ed è nell’orizzonte di vita dell’attuale governo. Ma nel 2015 entra in vigore il fiscal compact, e ogni anno il governo dovrà garantire 45-50 miliardi di abbattimento del debito in pareggio strutturale di bilancio. Pensare di farlo per via di avanzi primari di 5-6 punti di Pil l’anno, prostrata com’è l’economia italiana, appare impensabile, a meno di una recessione ancora più dura. Quindi vanno indicate vie straordinarie: le privatizzazioni che sin qui hanno languito, oppure una delle diverse manovre straordinarie di riduzione avanzate da più parti in questi ultimi due anni, evitando però patrimoniali coattive su famiglie e imprese.
Ci fermiamo qui. Perché la nostra vera intenzione non è critica, ma costruttiva. Ci rivolgiamo al ministro per sollecitargli risposte, a nome degli italiani. Certi come siamo che egli ricordi bene la parabola di Jacques Necker. Chiamato alle Finanze tra il 1776 e il 1781 da Luigi XVI, le sue riforme di efficienza ed equilibrio del bilancio furono avversate e diluite, dalla Corte come dai Parlamenti locali. Quando Luigi XVI lo richiamò in servizio, una prima volta nel 1788 e di nuovo all’indomani della presa della Bastiglia, era ormai troppo tardi. Ma fu il primo a fare un resoconto pubblico al re dei veri guai dei conti pubblici francesi, nel 1781. Aver detto per tempo che i problemi erano seri e i rimedi dovevano essere energici, vale a Necker ancor oggi la stima che ai più dei suoi colleghi nella storia è negata: troppo timorosi, davanti a un toro, di prenderlo per le corna.