Fabrizio Dragosei, Corriere della Sera 13/7/2013, 13 luglio 2013
UN SATRAPO VISIONARIO CHE PIACE ALLA CANCELLERIE
Riserva mondiale di petrolio e gas alla quale tutti i Paesi del mondo guardano con attenzione. Ma anche bastione di stabilità in una regione estremamente volatile e sicuro alleato nella lotta contro l’estremismo islamico e il terrorismo. Il paese più grande del mondo senza alcuno sbocco al mare (escluso il Caspio) è sotto il mirino delle organizzazioni umanitarie internazionali per il trattamento dei dissidenti, ma è anche nel cuore di tutte le cancellerie, da Washington a Mosca passando per Pechino e, naturalmente, per Roma.
L’uomo che assicura questi ottimi rapporti e al quale tutti i governi guardano con grande simpatia è proprio quel Nursultan Nazarbaev che viene accusato dagli oppositori di essere un despota e un tiranno, al potere da sempre in un paese più grande dell’intera Europa ma che ha soltanto 17 milioni di abitanti.
Nazarbaev viene da lontano, visto che nei suoi 73 anni di vita ha visto passare parecchia acqua sotto i ponti kazaki.
Era già nel partito comunista dell’Unione Sovietica quando Krusciov avviava il suo disgelo. Fece grandi passi avanti all’epoca di Gorbaciov, fino a diventare primo segretario del partito in Kazakistan e membro del Politburo dell’Urss. Nel 1991, all’epoca del golpe organizzato dai conservatori, si schierò con Boris Eltsin e i riformisti.
Inevitabile che la transizione lo vedesse protagonista. Da segretario, venne eletto presidente del Kazakistan indipendente. E da allora (1° dicembre 1991) nessuno l’ha spostato. La crescita del paese porta la sua firma e naturalmente è dovuta in massima parte alle ricchezze del sottosuolo. Petrolio e gas di cui il Kazakistan è uno dei maggiori esportatori mondiali.
Coi soldi, Nazarbaev ha deciso un’opera titanica, simile a quella intrapresa dal Brasile nel 1960 quando spostò la capitale da Rio de Janeiro alla neonata Brasilia. Il signore del Kazakistan decise negli anni Novanta di togliere ad Almaty (ex Alma Ata) il rango di capitale. Al centro del paese venne sviluppata una vecchia città fondata dai cosacchi e trasformata, nel 1997, nella capitale Astana (che vuol dire proprio capitale). Volenti o nolenti tutti furono costretti a spostarsi, compresi i diplomatici e i dirigenti delle grandi compagnie petrolifere mondiali che facevano affari in Kazakistan.
Sì, perché gli interessi in ballo sono molti, come è facile capire. A parte i giacimenti esistenti, ci sono due enormi iniziative in sviluppo, il campo gigante di Karachaganak, dove sono custoditi cinque miliardi di barili di greggio e quello in perforazione di Kashagan che arriva addirittura a 13 miliardi di barili.
A Kashagan l’Eni ha una quota del 16,81 per cento, come ExxonMobil, Shell e Total. I rapporti con l’Italia sono ottimi, quale che sia il governo al potere da noi. Ma anche gli altri paesi fanno a gara per non perdere colpi. Il primo ministro britannico Cameron, che pure ha concesso asilo politico al dissidente Ablyazov, il primo luglio era ad Astana.
Nella conferenza stampa seguita all’incontro con Nazarbaev, Cameron ha timidamente riferito di aver «discusso durante i colloqui la lettera di Human Rights Watch» sul trattamento dei dissidenti (torture, incarcerazioni, limiti alla libertà dei media). Ma il presidente kazako, «leader della nazione», lo ha subito bacchettato: «Grazie molte per le raccomandazioni e i consigli, ma nessuno ha il diritto di insegnarci come vivere». Cameron non ha replicato.
Il Kazakistan non è certo un campione di democrazia, ma c’è di peggio, specie in Asia Centrale. In fin dei conti Papa (come lo chiamano affettuosamente i kazaki) ha respinto una specie di plebiscito che gli voleva assicurare il potere fino al 2020. Si è limitato a far svolgere le elezioni per il parlamento (nel quale non siede nemmeno un oppositore) e a farsi nuovamente votare come presidente per cinque anni col 95,54 per cento dei voti.
Fabrizio Dragosei