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 2013  luglio 13 Sabato calendario

Cairo ha comprato gli inoptati Rcs

ORSI & TORI - Urbano Cairo non ha fatto commenti, né per smentire né per confermare, alla notizia di ItaliaOggi di venerdì 12 secondo cui è stato lui ad aggiudicarsi buona parte dei diritti inoptati per l’aumento di capitale di Rcs. Secondo stime attendibili, giovedì sono stati messi sul mercato diritti per sottoscrivere circa il 12% del capitale della società. Fondi attendibili del mercato hanno confermato che a comprarne larga parte è stato il presidente di una squadra di calcio di serie A, molto furbo. Che Cairo sia presidente di serie A è certo (Toro); che sia furbo e abile altrettanto certo: basta vedere il contratto estremamente ricco che ha saputo ottenere da Telecom Italia per prendersi La7. Ed è altrettanto certo che l’identikit non si riferisca a Diego Della Valle, non tanto perché non sia furbo e scaltro anche lui, ma perché della Fiorentina è patron senza cariche sociali. In ogni caso, a togliere ogni dubbio ci sono le sue dichiarazioni alla Consob. John Elkann è certamente furbo ma non è presidente di società di serie A, pur essendone l’azionista di maggioranza, avendo dovuto cedere la carica al cugino di secondo grado Andrea Agnelli, per saggio intervento di riequilibrio dei ruoli suggerito al giovane presidente della Fiat da Gian Luigi Gabetti, l’uomo che ha salvato più di una volta la Fiat e la famiglia Agnelli e che insieme all’avvocato Franzo Grande Stevens è stato per così dire quasi accantonato, anche se la giustificazione dell’avanzata età dei due è reale e anche se l’uscita di scena era probabilmente più che desiderata da loro stessi. Chissà, se fossero stati ancora presenti sul campo, se Gabetti e Grande Stevens avrebbero consigliato a Elkann e a Sergio Marchionne di affermare, come hanno fatto, che la partecipazione in Rcs è strategica perché lo era già nel 1984. Se è per questo un uomo dell’intelligenza di Marchionne, un uomo che questo giornale stima sinceramente, avrebbe potuto risalire ancora più nel tempo, ricordando che la Fiat è stata la prima volta in via Solferino agli inizi degli anni 70, quando i parenti di Giulia Maria Crespi decisero di vendere 2/3 dell’Editoriale Corriere della Sera sas: 1/3 andò ai Moratti, allora in grandissimo spolvero, e appunto l’altro terzo alla Fiat. Ma a comandare allora era Giulia Maria, che era socia accomandataria e appena si presentò l’occasione, poco tempo dopo l’acquisto, Giovanni Agnelli non esitò un attimo a vendere ad Andrea Rizzoli. Tanto non comandava. Ma come è noto quando, una volta entrata la Rizzoli-Corsera in amministrazione controllata, si presentò l’occasione per comandare l’Avvocato non se la fece scappare, grazie all’intervento del professor Giovanni Bazoli, allora presidente del Nuovo Banco Ambrosiano che possedeva di fatto il controllo e che (ha raccontato) chiese all’Avvocato di scendere (o salire, direbbe Mario Monti) in campo. E Agnelli scese in campo al comando di una pattuglia di nove azionisti, definiti nove maggiordomi e un principe, appunto lui. Da tutto ciò si potrebbe dedurre che la partecipazione nella Rcs è strategica per la Fiat se consente di comandare. Come sta per accadere anche questa volta, almeno secondo quanto risulta essere il pensiero del professor Bazoli: la Fiat ha più azioni di tutti e quindi a lei spettano diritti (e forse doveri) del comando. Ma, come credo si sarebbero chiesti sia Gabetti che Grande Stevens, uomini di raffinata intelligenza, in questo momento è conveniente non tanto per la Fiat, ma per il Paese, che a comandare sul primo gruppo editoriale italiano, ancorché ammaccato, sia la real casa di Torino ormai sempre più orientata a diventare americana? In questo senso allora di strategico si vedrebbe soprattutto un aspetto: il considerare Rcs uno strumento di difesa. Ma proprio per la stima che abbiamo verso Marchionne e anche verso John ci viene da chiedere: Caro Sergio, caro Yaki, ci dite davvero, in maniera credibile e non con riferimenti storici, perché considerate il 20% in Rcs così tanto strategico? Né GM, né Ford e nemmeno la conquistata Chrysler hanno mai avuto in Usa partecipazioni editoriali? Una scelta diversa dipende dal fatto che tutti i gruppi italiani hanno interessi nei media per fare più affari con il potere politico e non solo o per difendersi? Sarebbe altamente gradita una risposta a una domanda che molti giornali e giornalisti si fanno ma non scrivono. Grazie per l’attenzione da un ex direttore di Rcs. * * * La lucida e spietata analisi del duo Alberto Alesina-Francesco Giavazzi ha messo in buca il governo e in particolare il suo presidente del Consiglio, il pur bravo Enrico Letta. Nei giorni scorsi Letta aveva dichiarato che la Ue aveva concesso flessibilità all’Italia per i suoi conti pubblici. Naturalmente il presidente del Consiglio si è mostrato particolarmente soddisfatto per questo risultato. Ma poche ore dopo il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha spiegato che non c’era spazio per abolire in maniera secca l’Imu sulla prima casa ed evitare il rialzo dell’Iva. Due atti che andrebbero, secondo Alesina-Giavazzi e questo giornale, nell’unica direzione che può salvare l’Italia: la riduzione della pressione fiscale senza la quale continuerà la recessione. Se il presidente Letta afferma che l’Italia ha ottenuto flessibilità nei conti, in pratica la possibilità di poter oltrepassare con il deficit di bilancio il 3% del prodotto interno lordo (pil) per qualche anno, e se il ministro Saccomanni precisa che non ci sono risorse per ridurre in maniera secca la pressione fiscale, dove diavolo finiscono le risorse liberate con il maggior deficit, si domandano i due professori della Bocconi e di Harvard (Alesina)? La risposta è facile, perché Letta ha precisato che le maggiori risorse sono destinate a investimenti pubblici. Cioè, scrivono Giavazzi-Alesina, a uno scopo encomiabile, peccato ciò avvenga di fatto aumentando o non diminuendo la pressione fiscale invece che ricavare le risorse dal taglio della spesa pubblica, che nella pratica è l’unica via che permette di uscire dalla recessione. Lo dimostra il caso Irlanda: ha un debito pubblico simile a quello dell’Italia, ma avendo avviato negli anni scorsi una politica di contenimento della spesa pubblica è tornata a crescere (dell’1,3% quest’anno). Invece nel periodo 2012-2013 la spesa pubblica italiana è passata dal 45 al 45,8% del pil (10 anni fa rappresentava solo il 41,4%). È evidente che a peggiorare il rapporto concorre la caduta del pil, ma è proprio in questo rapporto che sta la chiave per capire il dramma italiano: la spesa pesa sempre di più mentre l’economia va giù. Per crescere le risorse devono essere liberate non dalla crescita ma dalla riduzione della pressione fiscale, che appunto consente di avere più capitali da investire senza far salire, ma anzi tagliando la spesa pubblica. Una politica economica che il governo presieduto da Mario Monti ha totalmente disatteso, a giudizio dei suoi colleghi di ateneo, e che ora Letta appare avviato a replicare. Per di più disorientando i cittadini con dichiarazioni di taglio delle tasse nel discorso di insediamento e di affermazione della grande difficoltà ad attuare la manovra appena 50 giorni dopo per bocca del ministro (affidabile) Saccomanni. In questa maniera anche lo spirito più ottimistico dei cittadini di poter tornare a vedere la luce finisce per essere frustrato e proprio le analisi concordano sul fatto che l’effetto psicologico sull’andamento dell’economia pesi per il 30% sul trend. Prova ne sia che i consumi degli italiani sono diminuiti in due anni (2012-13), certo per le minori risorse disponibili, ma anche per una inevitabile spinta cautelativa a risparmiare. La riprova è la crescita di almeno un miliardo al mese dei depositi presso il Banco Posta, usato in primo luogo dai ceti più deboli come i pensionati. Come si vede la spirale è perversa: più tasse o comunque pressione fiscale elevatissima, minore risorse per i cittadini, minori consumi, inevitabile caduta dell’economia. E c’è da credere a Giavazzi-Alesina quando affermano che la crescita è ripresa solo nei Paesi dove è stata tagliata la spesa pubblica per alleggerire le tasse e non dove il rapporto spesa pubblica/pil è peggiorato proprio per la spesa crescente e la pressione fiscale immutata o aumentata. In questo modo l’economia andrà sempre peggio. La crescita della spesa pubblica rispetto al pil è il segno della mancanza di disciplina e di reale volontà di cambiare dei governi, ma è anche il segno di come due scelte del passato di per sé positive si siano trasformate nel disastro in cui il Paese si trova. La prima scelta è stata il cosiddetto divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro. Nel 1981 il ministro Beniamino Andreatta, la cui genialità e lucidità sono state ricordate nei giorni scorsi in occasione della pubblicazione del libro a lui dedicato dal professor Alberto Quadrio Curzio, decise di porre fine al matrimonio tra la Banca centrale e il Tesoro: il matrimonio consisteva nel fatto che la Banca d’Italia, allora governata da Carlo Azeglio Ciampi, era obbligata a sottoscrivere tutti i titoli di Stato che il Tesoro emetteva per far fronte al fabbisogno. Il ragionamento di Andreatta era condivisibile: abolendo l’obbligo, lo Stato sarà costretto a spendere meno per non dover pagare sempre più interessi sui titoli da collocare tutti sul mercato. Nella realtà, non tagliando la spesa, il divorzio si è rivelato un boomerang poiché il debito è salito e con esso il costo del servizio del debito stesso, arrivato ormai a più di 80 miliardi di euro, solo in parte mitigato fino alla crisi del 2011 dal fatto di essere l’Italia parte dell’area euro. La seconda scelta in partenza positiva e poi disastrosa è stata proprio l’ingresso nell’euro: si disse allora che non essendo l’Italia più libera di fare svalutazioni competitive, il Paese avrebbe dovuto allinearsi sul piano dell’efficienza e della spesa pubblica. Obiettivo sacrosanto e condivisibile; peccato che i governi, di centrodestra o di centrosinistra che fossero, hanno continuato a far crescere la spesa, senza nessuna politica economica per far crescere l’efficienza. Risultato inevitabile, non essendoci più le svalutazioni competitive da poter compiere, la bassissima crescita e poi la profonda recessione. La mano gli tremava quando l’allora ministro del Tesoro, Guido Carli, mise la sua firma sul trattato di Maastricht che di fatto imponeva all’Italia il cosiddetto vincolo esterno, cioè appunto l’impossibilità di fare svalutazioni competitive con la lira e quindi di recuperare quote di mercato abbassando i prezzi con la moneta svalutata. Allora Carli mi spiegò che sapeva bene i rischi che firmando quel trattato l’Italia si assumeva, ma aveva la speranza, invece frustrata, che i governi e il Paese capissero quanto fosse necessario fare tagliando la spesa pubblica e dedicandosi alla crescita della produttività. Come si vede, alle scelte corrette sul piano teorico è necessario che conseguano comportamenti adeguati. È inutile, anzi dannoso, consumare il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia (scelta virtuosa) e poi ingigantire il debito, determinando così le condizioni ideali per la speculazione che senza il divorzio non si sarebbero determinate. In realtà il ragionamento è retorico perché con la nascita della Banca centrale europea le singole banche centrali nazionali non possono comprare titoli del loro Stato. Idem per l’entrata nell’euro e quindi per la rinuncia alla possibilità di utilizzare svalutazioni competitive. Se si entra nell’euro, come fu fortemente voluto dal presidente del Consiglio dell’epoca, Romano Prodi, e dal ministro del Tesoro Ciampi, allora occorreva attuare immediatamente una politica economica in grado di tagliare la spesa pubblica e conseguentemente il debito, spingendo la crescita di produttività. Né il governo di allora né quelli che si sono susseguiti di centrodestra hanno fatto alcunché di quanto era necessario. Ora non c’è più tempo. Il governo Letta deve avere il coraggio di fare contemporaneamente le tre cose necessarie: 1) tagliare in maniera incisiva la spesa pubblica che supera gli 800 miliardi; chiunque abbia una minima pratica di gestione sa che il 10% è sempre tagliabile in qualsiasi caso; 2) abbassare di conseguenza la pressione fiscale; 3) ridurre il debito attraverso la vendita di patrimonio pubblico, anche se ci sono folte schiere di oppositori a una tale azione sostenendo che il patrimonio è poco e che questo non sarebbe il momento di vendere (è di questo avviso anche il bravissimo professor Pellegrino Capaldo nell’ultima intervista al Corriere della Sera): in realtà basta una legge per richiamare i 400 miliardi di immobili che lo stato ha girato agli enti locali per il federalismo, visto che il contributo al debito pubblico globale da parte degli enti pubblici supera i 400 miliardi. Ci sono poi tutte le varie aziende municipalizzate; quanto alla considerazione che non è il momento di vendere è corretto ricordarlo, ma in realtà, come i lettori di questo giornale sanno, l’ipotesi è di conferire tutto il patrimonio in un fondo di valorizzazione, vendendo però le quote del fondo con una forte agevolazione fiscale. Il fatto è che ogni scusa è buona per non fare nulla. Se così si comporterà, senza mostrare il coraggio necessario quando si è davanti a situazioni drammatiche, il governo Letta cadrà da solo, senza bisogno che ci sia qualche sentenza giudiziaria contro Silvio Berlusconi che riporti il Pdl all’opposizione. Per altro, questa, ipotesi quasi improbabile, a leggere tutte le motivazioni che Vittorio Feltri ha portato nel suo articolo su Il Giornale al fine di spiegare perché la Cassazione assolverà il Cavaliere. Una ragione in più per governare con vigore e determinazione.