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 2013  luglio 11 Giovedì calendario

ARPINATI, IL FASCISTA ANARCHICO CHE SPAVENTAVA I COMUNISTI

Ad aprile di otto anni fa andai a Malacappa ­la tenuta dove venne ucciso Leandro Arpi­nati perché, a 60 anni dalla morte, la combattiva figlia Giancar­la e la nipote Susanna Cantamessa erano decise a installare una lapide a fianco alla casa: «In questo luogo il XXII aprile MXMXLV vennero vigliacca­mente assassinati da “partigia­ni” comunisti Leandro Arpinati e Torquato Nanni». Non avrei scommesso che la lapide sareb­be durata a lungo, invece è anco­ra lì, sotto una tettoia modesta quando la frase è dura: al pari delle donne di casa Arpinati. La moglie Rina, che per la sua di­staccata bellezza era il cruccio di molte mogli di gerarchi; Gian­carla, che assistette all’assassi­nio del padre, Susanna, che vive ancora lì. Lì incontrai anche Brunella Dalla Casa, allora direttrice del­l’Istituto per la Storia della Resi­stenza nella Provincia di Bologna e studiosa, «da sinistra», del caso Arpinati. Stava lavorando al «libro della vita», il saggio Le­andro Arpinati. Un fascista ano­malo, ora finalmente pubblica­to (il Mulino). Era un fascista tal­mente anomalo che Mussolini, poco prima della morte, disse: «Se non ci fossimo incontrati, sa­rebbe probabilmente rimasto un bravo e innocuo anarchico. Si era trasformato in un cattivo fascista ed ora è liberale, in ritar­do di cinquant’anni. Mi dicono che treschi coi partigiani».
Arpinati era nato nel 1892 a Ci­vitella di Romagna, a pochi chi­lometri dalla Predappio del du­ce, che aveva nove anni più di lui. Famiglia povera, autodidat­ta, diventò elettricista a Torino, prima sindacalista del Psi, poi anarchico-individualista e anti­socialista. Fu tra i primi futuri fa­scisti a «incontrare» Mussolini, nel 1910, quando il comune di Civitella, per l’inaugurazione del nuovo mercato, chiamò a te­nere un comizio il giovane socia­lista già famoso nella zona e gli anarchici di Arpinati lo accolse­ro a insulti. A metterli di nuovo in contatto, poi, fu Torquato Nanni, classe 1888, di Santa So­fia, sempre in zona, che già nel 1910 era mussoliniano, ma che rimarrà sempre socialista.
Nel primo dopoguerra Arpi­nati passò direttamente dall’anarchia al fascismo, anzi fu ca­po militare dello squadrismo bo­lognese, implacabile anche se non gli si possono addebitare episodi efferati. Dopo la marcia su Roma, Arpinati è convinto che si debba abbandonare la violenza, e dal ’24 comincia la sua ascesa nel regime, benché non amasse le divise. Sottosegreta­rio del Pnf nel ’26, podestà di Bo­logna nel ’27, Mussolini lo volle sottosegretario all’Interno nel ’29 con funzioni di ministro.
Divenuto uno degli uomini più potenti d’Italia, Arpinati riferiva ogni giorno a Mussolini, che più volte dimostrò di averne vera soggezione, tanto l’altro lo trattava con franchezza. Mario Missiroli notò che l’assoluta mancanza di adulazione era già un’implicita manifestazione di disaccordo. All’ascesa di Hitler si rivelò subito antinazista. Ren­zo De Felice lo definisce «un uo­mo molto retto, spregiudicato le­gato a Mussolini ma senza piag­geria alcuna, politicamente un puro».
I suoi avversari dentro il regi­me erano molti e il 3 maggio 1933 Achille Storace, ancora vi­cesegretario del Pnf, scrisse a Mussolini una lettera dove lo de­finisce «Stalin del fascismo» che avrebbe meritato «la legnatura o le manette». Il giorno dopo Mussolini lo costrinse alle dimissioni per generici «motivi perso­nali»: gli uomini alla Starace gli servivano più di quelli alla Arpi­nati. Non solo. Nel 1934 la Com­missione per il ­confino gli inflig­ge cinque anni per presunta con­trarietà «alle direttive del Regi­me». Ne scontò più di due a Lipa­ri prima di ottenere il permesso di tornare nella sua tenuta di Ma­lacappa come sorvegliato spe­ciale: Arpinati non volle mai chiedere perdono a Mussolini, gesto che gli sarebbe valso tut­t’altro trattamento: Nanni, con­finato già prima dell’amico, scrisse una lettera di supplica al duce e tornò a casa nel ’35.
L’8 ottobre 1943 il Duce lo fa prelevare per incontrarlo nella sua Rocca delle Caminate, e esordisce, come niente fosse: «Leandro, sono molti anni che non ci vediamo; ho molte cose da dirti». «Il passato non conta, abbiamo ben altro da discute­re», risponde Arpinati. Il Duce gli offre il ministero dell’Inter­no, ma Arpinati non cede. Quan­do, in seguito, Mussolini seppe dei suoi rapporti con le forze di Liberazione, commentò: «Arpi­nati si illude. È nella nostra stes­sa barca e quando noi andremo a fondo ci andrà anche lui». Le­andro infatti era tranquillo, al massimo si aspettava un proces­so dopo la guerra. Aveva stretto un accordo con i partigiani per­ché lo lasciassero in pace (bench­é continuasse a dichiararsi an­ticomunista), e ospitava nella sua tenuta - dove erano acquar­tierati i tedeschi - ogni genere di antifascista. Il 21 aprile 1945 il ge­nerale tedesco acquartierato a Malacappa disobbedisce all’or­dine di resistere a oltranza, per salvare la famiglia che lo ha ospi­tato, e si ritira. È alle 11 di matti­na ­che arriva un camioncino del­la protezione antiaerea. Di fron­te a Arpinati, Nanni, Giancarla, un’amica e Mario Lolli, segreta­rio dell’ex ras, scendono quat­tro uomini e due donne. Si saprà dopo che appartengono alla Set­tima Gap locale di Castelmaggiore, Brigata Garibaldi. «Dov’è Arpinati», chiede uno. «Sono io», risponde senza paura facen­do un passo avanti. Un partigia­no gli punta il mitra alla fronte. «Dai, ammazzalo», urlano le due partigiane, secondo il ricor­do di Giancarla. Secondo un’al­tra testimone, fu una sola delle donne a gridare invece: «Arpina­ti ha ucciso mio padre». Nella concitazione che segue Lolli vie­ne gravemente ferito, Nanni am­mazzato con un colpo alla nuca (probabilmente il brigatista non sa neppure di uccidere così uno dei più puri antifascisti del ventennio) e Arpinati abbattuto con una raffica sul viso.
L’urlo, non confermato, «Ha ucciso mio padre» accredita la tesi per cui Arpinati sarebbe sta­to assassinato per il ricordo del­le sue imprese di squadrista. Un’altra tesi, più verosimile, è che si temeva un suo possibile ri­torno alla politica, come libera­le e anticomunista. Sembra pro­pendere per questa tesi anche Brunella Dalla Casa, dopo avere ricostruito nei dettagli sia la vita sia la morte dell’ex gerarca. È l’ipotesi più attendibile, e forse la più scomoda per la storiogra­fia di sinistra, perché in questo caso l’ordine sarebbe partito dai vertici del Pci se non del Cln. Nella famiglia Arpinati non c’è alcun dubbio che questa sia la versione giusta.
I due cadaveri non ebbero se­poltura per cinque giorni. Gli as­sa­ssini non vennero né identifi­cati né cercati, ma tutti i sospetti - certezze - ricadono su Luigi Borghi, nome di battaglia Ulti­mo, uno dei più attivi fra i gappi­sti che insanguinarono il Trian­golo rosso. Fatto fuggire dal Pci prima in Jugoslavia, poi in Ceco­slovacchia, tornò a Bologna mol­ti anni dopo e morì nel suo letto.
Aveva svolto un lavoro impor­tante, perché l’ex anarchico-fa­scista-liberale Arpinati sarebbe stato un problema per la sua par­te.