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 2013  luglio 11 Giovedì calendario

SINDONA: "CERTI PARTITI ME L’HANNO FATTA PAGARE CARA"

È il 27 settembre 1982. Nel carcere di Otisville, Stato di New York, Enzo Biagi intervista Michele Sindona.
Avvocato Sindona come sta?
Abbastanza bene.
Qual è la sua giornata qui dentro?
Continuo con le mie abitudini, cioè alzarmi molto presto, fare un leggerissimo breakfast. E dopo giro un po’, o leggo o telefono.
Cosa legge?
Per deformazione professionale molti libri di economia. In questi giorni anche Nietzsche.
Il superuomo. Ci crede?
Credo che Nietzsche sia stato interpretato male. Non credo che volesse parlare di un superuomo per imporlo, ma per qualificare un tipo umano.
Lei è stato condannato da un tribunale americano a 25 anni: di che cosa l’hanno ritenuta colpevole?
Hanno condannato le mie intenzioni. Perché, nel giudizio, la sentenza ha detto chiaramente che non ho rubato.
Sbaglio o fatti recenti le hanno fatto perdere i due ultimi amici che le erano rimasti, parlo di amici importanti.
Cioè? Quali per favore? A chi si riferisce?
Beh, Gelli e Calvi.
Io ritengo di averne anche altri di amici. Comunque è chiaro che Calvi l’ho perso, perché è morto, e mi dispiace moltissimo. Gelli non mi risulta che l’abbiano ammazzato.
No. Calvi come lo ha conosciuto?
Verso la metà degli anni Sessanta, Calvi venne a trovarmi perché aveva apprezzato quello che avevo fatto con la Banca Privata Finanziaria. Gli dissi che conoscevo l’Ambrosiano, sapevo che si trattava di una banca che godeva di un buon prestigio nazionale ma non internazionale. Ritenevo che un’unione tra il “privatismo italiano”, che era il mio pallino, avrebbe potuto portare a risultati interessanti.
Vi univa la comune fede massonica?
Pensai che il Sudamerica fosse l’area più adatta per l’espansione dell’Ambrosiano: avrebbe potuto, investendo in attività sane, evitare quel caos che porta al comunismo. Questa era l’intenzione che ci univa, non quella massonica. Gelli aveva grosse relazioni in molti punti vitali del Sudamerica, dove i capi politici e militari sono massoni e lo rispettano: glielo presentai. Calvi successivamente si iscrisse alla P2.
Lei era iscritto alla P2?
No.
Però alla Loggia di Palazzo Giustiniani sì.
No, no. Gelli, che mi ha molto aiutato, mi ha mandato una lettera con dei moduli da firmare e una tessera autografata dal Gran Maestro Salvini. Mi disse: “Firmali, poi farai il giuramento”. Io non ho voluto né firmare né giurare. Qualcuno mi ha detto che non iscrivermi alla P2 è stato un errore, ma io sono nato libero e voglio morire libero. Non sono stato massone, ma difeso dai massoni sì.
Avete fatto dei buoni affari con Calvi?
Con Calvi e Gelli abbiamo acquisito il controllo della Centrale, poi abbiamo fatto la famosa Opa Bastogi, che aveva lo scopo di creare un grosso centro privato italiano che avrebbe dovuto dare ossigeno alle aziende private per non lasciarle ricattare dalle banche di Stato.
Avete guadagnato bene?
Sì, circa una decina di miliardi a testa.
Lei pensa che Calvi sia morto ammazzato o che si sia ammazzato?
Non capisco come si possa pensare che Calvi si sia ammazzato.
Ma non aveva già tentato in carcere di togliersi la vita? O era una commedia?
Calvi non era un commediante. Non si va a Londra per morire sotto quel ponte con le pietre in tasca.
Avvocato Sindona, chi ha ammazzato Calvi?
Io sostengo che è sempre la stessa ideologia – dico così per non dire persone – che voleva ammazzare me. È l’Internazionale di sinistra spinta dal “radicalismo-chic”.
Lei aveva preso l’impegno di far separare la Sicilia dall’Italia?
No, questa è una sua idea!
No, questa è un’idea riportata dalla stampa di mezzo mondo, e anche quello che dice chi è stato con lei in quel periodo: “Volevamo dividere la Sicilia dall’Italia”.
Noi volevamo rafforzare il separatismo siciliano per poter dare una rappresentanza alla Sicilia nel governo e nel parlamento.
É vero che quando lei si rivolgeva ad Andreotti lo chiamava “caro Giulio”?
No, no, mai “caro Giulio”. Caro illustre, e caro presidente.
Lei ha sempre detto di essere stato rovinato da Cuccia: insiste su questo tema?
Cuccia è un farabutto. Dovrebbe essere in galera perché ha rovinato il Paese per la disoccupazione che ha creato, attraverso truffe e aggiotaggio. Quando l’ho incontrato e gli ho rinfacciato la sua dichiarazione alla Banca d’Italia: “Non solo bisogna rovinare Sindona ma bisogna spargere le sue ceneri”, s’è messo a ridere dicendo: “Beh, dimentichiamo il passato”.
Durante quella conversazione che cosa altro vi siete detti?
Cuccia mi disse: “Mi si accusa di volerla rovinare, invece io voglio intervenire per trovare una soluzione tecnica in suo favore”. Poi arrivò la morte di Ambrosoli e tutto si bloccò.
Con Ambrosoli lei non c’entra proprio niente?
Non solo non c’entro, ma non smentisco quello che ho dichiarato su Ambrosoli: “Era un incompetente”. Mi dispiace perché è morto, ma non sono un ipocrita, lo confermo. Ambrosoli ha sbagliato, ma da qui alla violenza ce ne corre.
Qualcuno dice che lei ha ammesso di aver parlato del pericolo che costituiva per lei Ambrosoli. Lui delle minacce le ha avute, e ci sono delle registrazioni di queste minacce. Ne ha sentito parlare?
Ne ho sentito parlare, ma io ho fatto presente che, quando Ambrosoli è stato ucciso, aveva già consegnato tutti i documenti: non era più pericoloso per me. Non solo, ma io coi miei avvocati aspettavamo con ansia di andare dal magistrato perché Ambrosoli aveva formulato delle domande stupide, tecnicamente sballate. Lo avremmo distrutto.
A qualche politico ha dato soldi? A un partito?
Mai. Ho dato soltanto alla Dc 2 miliardi in prestito, che mi dovranno restituire.
Che tipo è Gelli, secondo lei? È un filantropo?
Non credo. È un uomo che è rimasto scosso dal fatto che nella guerra di Spagna i comunisti gli hanno ucciso il fratello, mentre erano insieme in trincea. Da quel momento ha fatto la crociata per cercare di combattere il comunismo. Da lì nasce la sua attività per la quale è stato accusato di essere eversivo. Lui vedeva in Italia l’avanzata dei comunisti. A me chiedeva le idee per tutta la parte economica, per costruire una società veramente libera e democratica.
Come spiega che il Vaticano facesse tanti affari con voi massoni?
Un momento. Il Vaticano non ha mai fatto affari con noi massoni, perché io non ero massone. Il Vaticano con me non ha fatto affari: io ho aiutato il Vaticano, è molto diverso. Il Vaticano era socio in tre mie banche e io l’ho tolto dai guai perché mi erano stati consegnati bilanci falsi.
Come falsi?
Marcinkus e lo Ior non hanno niente a che vedere con l’Apsa, che gestisce il patrimonio economico della Santa Sede. Presidente era il cardinal Guerri, dopo di lui è arrivato il cardinal Capra, da loro ho comprato Le Condotte d’Acqua, la Società Generale Immobiliare e la Ceramica Pozzi, che era un rottame e che impegnava il Vaticano per un centinaio di miliardi.
E tutte con bilanci falsi?
Quando io ho preso le aziende, mi sono accorto che purtroppo – e sono convinto che i cardinali fossero in buonafede perché completamente incompetenti – i consiglieri d’amministrazione rappresentanti il Vaticano, per non perdere il posto e per far bella figura, avevano redatto bilanci non rispondenti alla realtà. Sono andato dal cardinal Benelli: “Eminenza, cosa devo fare?”. E lui: “Il Vaticano la proteggerà sempre e comunque, il buon Dio la benedirà e la compenserà in altro modo”.
E Marcinkus l’ha benedetta o no?
Marcinkus, come presidente dello Ior, era socio di due mie banche. Marcinkus mi chiedeva consigli. Gli dissi: “Senta Eccellenza stia attento a non fare operazioni, soprattutto sul piano internazionale, che possano farla considerare come un affarista. Non si rivolga a un piccolo broker della California, si rivolga alla Morgan: se sbaglia la Morgan nessuno dice niente, ma se sbaglia un piccolo broker lei verrà accusato di aver fatto affari”. Così è accaduto.
Lei ha detto che in Italia non si può stare in alte sfere senza corrompere qualcuno.
Quando ho comprato dal Vaticano la Società Generale Immobiliare, il direttore mi disse: “Sa, noi dobbiamo rispettare l’accordo Trinacria, concordato con vari partiti. Su ogni appalto ci mettiamo d’accordo prima su chi lo deve prendere e se è nostro, diamo il 3 per cento ai partiti, così diviso: l’1 alla Dc, l’1 al Psi, che danno una piccola parte ai socialdemocratici e l’1 ai liberali che se lo dividono anche loro con socialdemocratici e il Msi”. Gli chiedo: “Come riuscite a fare questo?”. “Coi soldi neri delle società”. Gli rispondo: “Guardi che non è un reato dare i soldi ai partiti, se sono di vostra proprietà, ma la società è quotata in Borsa... Faccia sapere al presidente che da oggi si deve bloccare il conto”. Qualche giorno dopo viene da me e mi dice: “Guardi che il segretario amministrativo del Psi le vuol parlare perché non è contento di questa soluzione”. Mai fatta la telefonata a Mario Talamona. I socialisti si vendicarono quando trattai la Finambro: me lo impedirono. Idem con le Condotte d’Acqua, l’amministratore delegato mi disse: “Noi non possiamo lavorare se non paghiamo i partiti”. Telefonai a Londra: “Vendete Le Condotte d’Acqua perché non rimango in una società in cui vengono truffati gli azionisti”. Certi partiti non me l’hanno perdonata.
Senta avvocato, lei sa che si è parlato dei suoi rapporti con John Charlie Gambino, che a New York sarebbe a capo di 5 famiglie di Cosa Nostra, di cui lei è sarebbe consulente finanziario?
Non è vero. Stia attento, le racconto il mio rapporto con Gambino. In America durante una festa in mio onore un reporter della televisione italiana, Mario Salinelli mi propose di fare un giornale per gli italiani. Io dissi che ero d’accordo. Un giorno mi propose: “Senta, io sono in ottimi rapporti con John Gambino che conosce parecchi attori italiani, si potrebbe organizzare una grande serata per finanziare il progetto. Gambino può ottenere molte sottoscrizioni per il giornale, ma vuole da lei l’assicurazione che un’impresa così non fa perdere troppi soldi. Vuol venire a cena?” “Volentieri”. Lì ho conosciuto il signor Gambino e abbiamo parlato del giornale.
E i fratelli Spatola, don Agostino Coppola, Luciano Liggio?
Ho conosciuto solo uno dei due Spatola. Gambino mi disse: “Ho un mio cugino che ha in Italia dei problemi: è iscritto all’albo dei costruttori, può partecipare alle aste sino a 6 miliardi. Lei può farlo assistere a Roma da qualcuno?”. “Volentieri” dissi “lo faccio assistere dall’avvocato Guzzi, che è il mio avvocato, una persona per bene. Però mi faccia chiedere sue informazioni”. “Chiedile al Banco di Sicilia e alla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde” rispose. Le informazioni su Spatola erano di primissimo ordine, 2 miliardi di credito da una parte, 600 milioni dall’altro, perfetto. Dico a Guzzi “fammi la cortesia, interessati”. È tutto.
Lei ha mai paura?
Io ho paura soltanto per la mia famiglia. Quando non si ha paura di morire, quando si ha una fede, non c’è motivo di avere paura.
Lei ha qualcosa di cui si vergogna?
Vergognarmi di cosa? Non ho rubato. Non ho finanziato i dittatori sudamericani. In Sudamerica abbiamo fatto esattamente l’opposto: non potendo eliminare i dittatori, abbiamo cercato di salvare delle vite umane. La mia coscienza è a posto.

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AMBROSOLI, PRONTO A "QUALUNQUE COSA" -
“ANNA CARISSIMA, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della Banca Privata Italiana, atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. (...) Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto”. Così scriveva Giorgio Ambrosoli alla moglie, così la storia di un uomo normale e coraggioso tornerà davanti agli occhi degli italiani il prossimo autunno quando la Rai manderà in onda la fiction Qualunque cosa succeda, prodotta dalla 11 Marzo Film con sceneggiatura di Andrea Porporati e la regia di Alberto Negrin. Ambrosoli sarà interpretato da Pierfrancesco Favino. Già nel 1995 Michele Placido diresse la pellicola Un eroe borghese, con Fabrizio Bentivoglio. A differenza dell’opera di Placido, la cui sceneggiatura era tratta dall’omonimo libro di Corrado Stajano, la miniserie destinata al palinsesto di Rai1 per il prossimo autunno, si baserà sul best-seller Qualunque cosa succeda di Umberto Ambrosoli, figlio dell’avvocato.

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L’AVVOCATO CHE VOLEVA SOLO LA ROLLS ROYCE -
Nella prima puntata de “Il Fatto di Enzo Biagi: le grandi interviste”, proponiamo la storia di Michele Sindona nel giorno in cui cade il 34esimo anniversario della morte dell’avvocato Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979). Sindona fu il mandante dell’omicidio, per il quale nel 1986 venne condannato all’ergastolo, ma tutta la sua vita è un intrico di finanza, massoneria e mafia, tangenti ai partiti e misteri, ricatti e tanta criminalità.
La prima volta che Biagi scrisse di Sindona fu nel 1971, l’articolo fu intitolato: “Gli svaghi del siciliano di ghiaccio”. Scriveva Biagi: “Milano è, giustamente, la sua città. È qui che tempo e denaro hanno valore particolare. È arrivato quassù da “una terra che esporta”, come scrive il Times, “agrumi e talenti” e ha saputo subito dar prova delle sue qualità. Aveva in tasca una laurea in Legge e molta voglia, come ha detto un conoscente, “di entrare fra i grandi”.
Sindona è nato a Patti, vicino Messina, nel 1920. É alto, magro, i capelli lievemente brizzolati sulle tempie: veste sempre con gusto meridionale, di scuro. Viaggia, per motivi di rappresentanza, sulla Rolls Royce. Ha pochi amici. Ogni mattina, poco dopo le sette, entra nel portone di via Turati, in pieno centro; ha già fissato un incontro con qualche collaboratore, mentre prende un “cappuccio” al bar accanto. Si ferma poco in sede: un giorno o due, poi scappa a Roma, a Londra o a New York. Ha molti rapporti col Vaticano, ma le buone azioni di cui ha discusso non sono quelle auspicate dal Vangelo, piuttosto le altre, quelle segnate nei listini.
Dai Rothschild a Frank Sinatra, era utile a tutti
Frequenta i salotti soltanto per esigenze operative: gli piace essere in buoni rapporti con quelli che contano. Molti si chiedono, e la risposta non è facile, “chi ha alle spalle”. Qualche volta i Rothschild francesi, sicuro, e mister Hambro di Londra, e in un certo momento si è fatto anche il nome di Frank Sinatra, per una storia di alberghi, e perché tra compaesani sembra più facile intendersi. Politicamente, Michele Sindona non è nulla: è disposto, insomma, come per la vendita delle aziende, che è la sua più autentica specialità, a trattare con tutti. Il Newsweek lo descrive come uno che non si abbandona all’improvvisazione: “Meticoloso come un tedesco, pedante come un inglese e freddo come uno scandinavo”.
Sindona, dopo essere stato protagonista di una straordinaria ascesa, è costretto a una discesa altrettanto rapida che lo trasforma da mago della finanza a criminale vero. Le sue società finanziarie servono per riciclare il denaro sporco del mafioso italo-americano John Gambino. Attraverso la Finabank di Ginevra, i boss di Cosa Nostra investono le loro ricchezze illecite. La Banca d’Italia comincia a investigare. Il Governatore Guido Carli decide di mandare un commissario liquidatore alla sua Banca Privata Finanziaria: l’avvocato Giorgio Ambrosoli che, nonostante i tentativi di corruzione e le innumerevoli minacce, decreta la liquidazione della banca e accusa Sindona di responsabilità penali. Il banchiere non si dà per vinto mette in campo tutte le sue amicizie: dalla P2 di Licio Gelli a Giulio Andreotti. A Roberto Calvi chiede un prestito che gli viene negato.
Sindona è vendicativo: inizia a ricattare Calvi sulle attività illegali del Banco Ambrosiano. Sindona fugge negli Stati Uniti per non essere arrestato. Non dimentica di regolare i conti anche con Ambrosoli: un sicario lo ammazza sotto il portone di casa la sera dell’11 luglio 1979. Qualche mese prima, il 19 marzo, viene incriminato dal giurì federale dello Stato di New York per il fallimento della Franklyn Bank, e accusato di averla acquistata con fondi illegittimi. I primi d’agosto Sindona scompare, simula un rapimento. Viene poi trovato in ospedale, ricoverato per una ferita da arma da fuoco alla coscia sinistra. Il 13 giugno 1980 è condannato a 25 anni di reclusione per associazione a delinquere, frode, falsa testimonianza, uso fraudolento dei mezzi di comunicazione federali.
Le interviste in tivù. Poi le urla: “M’hanno avvelenato”
Enzo Biagi intervista Michele Sindona tre volte per la Rai. La prima nel 1977, la seconda nel 1982 (che pubblichiamo, la più importante) nel carcere di Otisville-New York. Quella che fece più cronaca fu la terza, del 18 marzo 1986, realizzata nel carcere di Voghera il giorno della sua condanna all’ergastolo per l’omicidio Ambrosoli.
Biagi è l’ultimo a fare visita a Sindona prima della morte. Il 20 marzo, come tutte le mattine, gli agenti che lo controllano a vista giorno e notte, entrano nella cella per portargli il caffè dentro la solita tazzina. Dopo averlo bevuto Sindona si accascia sul pavimento urlando: “Mi hanno avvelenato”. Muore il 22 marzo dopo una tremenda agonia. I periti troveranno nella tazzina tracce di cianuro. Sindona se ne va, aggiungendo a tante pagine oscure il mistero della sua fine.