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 2013  luglio 12 Venerdì calendario

QUANTO COSTA AGLI USA IL PRIMATO DEL PETROLIO

Sull’onda del successo statunitense, in tutto il mondo si discute delle infinite possibilità offerte dalla produzione di gas e petrolio da giacimenti shale e tight (formazioni rocciose con bassissima permeabilità). Tuttavia, né i sostenitori dello shale, né i suoi tanti detrattori, si rendono conto che quanto sta avvenendo in America sarà difficilmente replicabile nel resto del mondo a causa di un aspetto fin qui trascurato: nella produzione di petrolio e gas da shale, l’intensità di perforazione è una questione “di vita o di morte”. In altri termini, per ottenere una produzione significativa di idrocarburi da shale, l’industria petrolifera deve realizzare un numero sempre crescente di pozzi a un ritmo esponenziale, poiché la produzione del singolo pozzo declina drasticamente già nei primi mesi di produzione. In alcune aree degli Stati Uniti questo è possibile, nel resto del mondo no.
ANDIAMO CON ORDINE. Sulla base di una mia analisi* di oltre 4 mila pozzi di petrolio negli Stati Uniti – e di un’ulteriore, più dettagliata analisi di 2 mila di essi –, anche in presenza di una costante diminuzione del prezzo del petrolio (da 85 dollari al barile nel 2013 a 65 dollari nel 2017), nel 2017 gli Stati Uniti potrebbero essere in grado di produrre circa 5 milioni di barili al giorno (mbd) di petrolio da shale (cioè più della produzione complessiva di Libia e Irak). Oltre il 90 per cento di questa produzione verrà da tre grandi giacimenti: Bakken-Three Forks (North Dakota), Eagle Ford e Permian Basin (Texas). Considerando anche la futura produzione di petrolio convenzionale e di altri prodotti statisticamente associati al petrolio (biocombustibili, gas liquefatto), gli Stati Uniti potrebbero diventare entro il 2017 il primo produttore mondiale di petrolio, superando l’Arabia Saudita.
Rimane il fatto che, per dotarsi di questo enorme potenziale, l’industria petrolifera americana deve realizzare un numero incredibile di pozzi, compensando ogni anno il declino produttivo di quelli più vecchi. Per fare un esempio, a dicembre 2012 era necessario portare in produzione 90 nuovi pozzi ogni mese per mantenere il tasso di produzione allora raggiunto da Bakken-Three Forks (il più vasto giacimento di shale oil degli Stati Uniti) – ossia 770 mila mbd.
North Dakota e Texas sono in grado di sostenere un aumento dell’intensità di perforazione per molti anni, con una capacità complessiva di oltre 100 mila pozzi di petrolio da shale – a fronte dei circa 10 mila attualmente in produzione. Tuttavia, il numero di pozzi richiesto dalla produzione shale è qualcosa che il mondo non ha mai visto, e diventerà probabilmente il maggiore ostacolo ambientale alla diffusione dell’attività shale, a partire dagli stessi Stati Uniti. Al di fuori di Texas, North Dakota e di un’altra decina di Stati con vasto territorio, scarsa densità di popolazione e una lunga storia di intensità di perforazione, il resto del paese difficilmente accetterà la logica del “perfora o muori”. È quasi certo, invece, che a livello mondiale questa logica si rivelerà un ostacolo insuperabile, e non solo per l’opposizione degli ambientalisti ma anche per una serie di altre ragioni tecniche.
ANZITUTTO, GLI STATI UNITI possiedono oltre il 60 per cento degli impianti di perforazione del mondo, e il 95 percento di essi è in grado di effettuare la perforazione orizzontale – che, assieme alla fratturazione idraulica (fracking), è indispensabile per sfruttare le risorse shale. Nessun’altra nazione o area del mondo possiede anche solo una frazione di tale potenza di fuoco, la cui costruzione richiede molti anni. Inoltre, nessun altro paese ha mai sperimentato anche solo una frazione dell’intensità di perforazione tipica della storia degli Stati Uniti. Nel 2012, per esempio, gli Stati Uniti hanno completato 45.468 pozzi di petrolio e di gas (e avviato la produzione in 28.354 di essi). Canada escluso, nel resto del mondo sono stati completati solo 3.921 pozzi, e solo una parte di questi è stata avviata alla produzione. Nell’intera Europa, ogni anno si mettono in produzione non più di 300 pozzi di petrolio e gas, in Italia assai meno di 50.
Altri fattori renderanno impervio il cammino dello shale nel mondo. Tra questi vanno inclusi l’assenza di diritti minerari privati nella maggior parte del mondo (negli Stati Uniti chi possiede la terra possiede anche le risorse nel sottosuolo, e quindi ha un enorme incentivo a vendere i suoi diritti; nel resto del mondo le risorse del sottosuolo appartengono quasi sempre allo Stato) e l’assenza di società petrolifere indipendenti dotate di una mentalità da “guerriglia”. Quest’ultimo aspetto è molto importante. Fino a oggi, lo sviluppo dello shale non si è dimostrato cosa da grandi compagnie petrolifere, poiché richiede società capaci di muoversi su scala ridottissima, perseguire molteplici micro-obiettivi e sfruttare in modo flessibile le opportunità di breve periodo. Solo negli Stati Uniti esiste una pletora di queste società, che – non a caso – sono state e rimangono le protagoniste della rivoluzione shale.
PER QUANTO NON RIPETIBILE, il boom statunitense nello shale potrebbe avere un forte impatto sul mondo del petrolio e del gas favorendo la diffusione della fratturazione idraulica per recuperare maggiori quantità di petrolio convenzionale da giacimenti maturi e in fase di declino in tutto il mondo – il cui tasso di recupero medio è attualmente non superiore al 35 per cento.
Quello stesso boom, tuttavia, rimarrà nei prossimi anni ostaggio dei prezzi del petrolio. Infatti, il pieno sviluppo di petrolio da shale degli Stati Uniti necessita di un prezzo del petrolio sul mercato americano superiore agli 80 dollari al barile nel breve periodo e ai 65 dollari al barile nel lungo termine (cinque anni). Prezzi inferiori avrebbero l’effetto di ridurre l’intensità di perforazione e di conseguenza la produzione del petrolio. Un’ultima osservazione sulla rivoluzione shale non può prescindere dalle sue conseguenze geopolitiche.
Anzitutto, per quanto enorme, il potenziale produttivo di greggio degli Stati Uniti non permetterà al paese di raggiungere la tanto agognata indipendenza energetica: anche nella migliore delle ipotesi, il 25 per cento del greggio necessario agli americani dovrà comunque essere importato. Certo, si tratta di una percentuale assai inferiore a quella odierna, che tuttavia comporta alcuni aspetti paradossali in termini di sicurezza degli approvvigionamenti. In caso di declino dei prezzi del petrolio, infatti, i fornitori stranieri a maggior rischio sarebbero paesi considerati da sempre “sicuri”, come Canada e Venezuela, il cui greggio è particolarmente costoso. La diminuzione delle importazioni statunitensi, inoltre, inciderà (lo sta già facendo) sulla produzione petrolifera di diversi paesi africani (Nigeria, Angola, Libia e Algeria), che saranno costretti a trovare nuovi mercati per le loro esportazioni. Solo in misura ridotta la rivoluzione americana del petrolio colpirà i Paesi del Golfo Persico, il cui mercato d’elezione si sta spostando velocemente verso l’Asia. Tuttavia, anche per loro, come l’intera Opec, le conseguenze di quanto sta avvenendo negli Usa potrebbero essere rilevanti.
LA PRODUZIONE MONDIALE di petrolio nel mondo sta crescendo molto più rapidamente della domanda e per gestire questo squilibrio l’Opec sta facendo affidamento su due pilastri: da un lato, la disponibilità dell’Arabia Saudita a non immettere sul mercato una quota crescente della sua capacità produttiva; dall’altro, l’impossibilità per l’Iran di esportare una fetta rilevante della sua produzione petrolifera a causa delle sanzioni internazionali. I prossimi anni diranno se l’Opec sarà capace di sostenere questo squilibrio, a fronte di paesi africani che cercheranno altri mercati per il loro petrolio, di un Irak che cercherà di diventare uno dei primi paesi al mondo per produzione di greggio, e di una domanda di oro nero che continua a ristagnare, sullo sfondo di una crisi economica mondiale che lascia intravedere pochi spiragli.