Orazio Carabini, l’Espresso 12/7/2013, 12 luglio 2013
SAN DRAGHI AL SECONDO MIRACOLO
Quando sarà avviato il suo processo di beatificazione, quello del 4 luglio sarà messo agli atti come il "secondo miracolo" di san Mario Draghi. Già, perché ancora una volta è bastato un suo annuncio perché un rischio incombente non si concretizzasse. Ben Bernanke, presidente della Federal reserve americana, aveva comunicato che la politica monetaria espansiva della banca centrale americana si stava avvicinando alla fine. Con l’obiettivo di sgonfiare sul nascere la bolla che si stava formando sul mercato dei titoli di Stato e delle azioni Usa. Il rendimento a lungo termine dei bond Usa si è subito aggiustato. E il presidente della Bce ha dovuto parare il colpo: senza un segnale forte i tassi di mercato europei si sarebbero allineati a quelli Usa.
Così Draghi ha deciso di muoversi. È bastata una frase: «Faremo tutto quanto è necessario per evitare che rialzi dei tassi d’interesse internazionali aggravino la recessione europea aggiungendovi la restrizione monetaria». E i mercati hanno capito: i rendimenti sui Bund tedeschi sono rimasti pressoché fermi e il differenziale con i titoli americani ha raggiunto i 100 punti base (1 per cento), come si vede dal grafico elaborato da Prometeia nel suo Rapporto di previsione trimestrale.
«Draghi ha pochi strumenti a disposizione e si muove tra mille difficoltà politiche - commenta Paolo Onofri, direttore del centro di ricerche bolognese - ma si è costruito un capitale reputazionale tale che è riuscito con un annuncio a disallineare la politica monetaria europea da quella americana». Senza la mossa della Bce, il credito in Europa sarebbe stato subito più caro e la recessione, già alimentata da una politica fiscale restrittiva, si sarebbe aggravata. Perché consumi e investimenti avrebbero rallentato ancora di più. E, a ruota, il Pil e l’occupazione si sarebbero ulteriormente contratti, aumentando quel «disagio sociale» di cui lo stesso Draghi si è detto preoccupato davanti al parlamento europeo. Non solo. I tassi d’interesse bassi hanno anche l’effetto di deprezzare il cambio dell’euro, beneficiando così le esportazioni dei paesi dell’area.
In pratica si è ripetuto il miracolo del 26 luglio 2012 quando Draghi disse: «Faremo tutto quello che serve per salvare l’euro». Per poi annunciare il piano Omt (Outright monetary transactions), cioè l’acquisto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine dei Paesi in difficoltà a patto che si impegnino a rispettare determinate condizioni. Quel piano non è mai stato azionato, eppure gli spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi forti e quelli dei paesi deboli si sono molto ridotti, contribuendo in modo decisivo a far calare le tensioni sui mercati e a facilitare il finanziamento del debito pubblico nel Sud Europa.
Oggi Draghi si trova di nuovo nella situazione di dover tenere a bada nello stesso tempo i mercati e i falchi tedeschi. Per questo tiene fermo il repo, il tasso di riferimento della Bce, e si lascia uno spazio per scendere qualora ce ne fosse bisogno. Sapendo che nelle condizioni attuali (in piena "trappola della liquidità") gli effetti di una riduzione dei tassi-base rischiano di essere minimi se non nulli. Non esclude inoltre la possibilità di passare a tassi negativi sui depositi delle banche presso la Bce. E si dichiara infine pronto a ripetere le iniezioni di liquidità alle banche (Ltro) già sperimentate lo scorso anno.
In contemporanea la Bce sta lavorando per accelerare il completamento dell’unione bancaria con il passaggio alla vigilanza unica e con la definizione di un meccanismo per la risoluzione delle crisi. «Passano da lì - aggiunge Onofri - le speranze di una ripresa solida, che non sia frenata dal credit crunch». Una partita che però dipende più dai governi che da Francoforte.