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 2013  luglio 12 Venerdì calendario

RICOMINCIO DAI DOSSIER

[Colloquio Con Antonio Di Pietro] –
La cronaca, per una volta, deve partire dalla fine: quando Antonio Di Pietro, 62 anni, polo bianca schizzata di caffè, dopo tre ore e oltre di intervista, tra urla, risate, retroscena e attacchi feroci ai suoi nemici storici e non, sgancia una bomba abbastanza atomica. Con aria severa, scandendo le parole, annuncia di avere «consegnato a vari uffici giudiziari, tra i quali l’antimafia, documenti, riscontri e prove dell’esistenza di strutture criminali che hanno il compito di costruire dossieraggi su personalità istituzionali e pubbliche in generale. Me compreso». Sono le 19.15 del 3 luglio. Settantadue ore prima, dopo 15 anni di monarchia assoluta nell’Italia dei Valori, il congresso straordinario del partito ha eletto segretario Ignazio Messina, ex responsabile degli enti locali. E piace parecchio, all’ex pubblico ministero di Mani Pulite, far rimbalzare nell’aria il concetto che lui ormai è «un semplice militante», uno dei fulgidi volenterosi che girano per le piazze a «raccogliere firme e manifestare». Ma intanto, nella stanzetta di tre metri per quattro dove ora lavora per l’Idv, fa quello che ha sempre fatto: lancia accuse pesanti. «Esistono nel nostro Paese», ribadisce, «organizzazioni che hanno agito e agiscono con una duplice strategia: vendere dossier al miglior offerente, oppure svolgere trattative con i diretti interessati». Un magma frequentato anche da personaggi in qualche modo «prossimi ai servizi segreti», accenna Di Pietro. Nomi e cognomi sui quali stende il silenzio, «in attesa che la magistratatura svolga i riscontri». Ma già che c’è, e si è tolto quello che chiama un «sassolino nella scarpa», garantisce: «se la matassa verrà dipanata, potremo riscrivere la storia politico-giudiziaria italiana, dall’avvio di Tangentopoli fino a questo luglio 2013».
E per fortuna che la davano per depresso, Di Pietro, sfiancato dalle disavventure del suo Idv e dall’arrivederci al ruolo di leader.
«Ma quale depresso e depresso! Hanno anche scritto che avevo le lacrime agli occhi, durante il congresso. Balle giganti. Ho invece gioito durante i lavori, saltellato nelle fasi finali, e addirittura esultato per la scelta di Messina. È stata la felicità di un padre che ha visto riprendersi il figlio malato. Ci voleva proprio, questo bel salasso, per togliere il sangue marcio alla De Gregorio...».
Dice qualcuno: è cambiato tutto perché non cambiasse niente. Il neocapo Ignazio Messina è uomo di Di Pietro, e l’ex pm trafficherà dietro le quinte in attesa di tempi migliori.
«Ah sì? Allora sa cosa rispondo a chi parla così? Che tutti e cinque i candidati erano figli miei. Inoltre: siccome non mi chiamo Schettino, non abbandonerò la nave Idv. Anzi, negli schedari attorno alla scrivania ho le centinaia di cause che abbiamo in corso per tutelare l’onorabilità del partito. D’ora in poi ci penso io, a sistemare calunnie e diffamazioni».
È tornato Tonino l’investigatore: a tutto campo.
«Esatto, lo può scrivere».
In automatico viene da ripensare al 6 dicembre 1994, quando conclusa la requisitoria del processo Enimont si è sfilato per l’ultima volta la toga nel tribunale di Milano. Cosa ricorda, d’istinto, di quella giornata?
«Quello che è successo il giorno dopo. Mi sono dimesso dalla magistratura, sono tornato a casa e ho annunciato alla mia compagna, con cui stavo dagli anni Ottanta e avevo già una figlia: "Da oggi inizia una nuova vita: sposiamoci la settimana prossima". Poi siamo usciti a comprare tutto il necessario».
Ricordo tenero e molto preciso. Meno chiaro, a detta dei suoi detrattori, è stato invece il motivo dell’addio alla toga. Lei ha sempre sostenuto che la «tiravano per la giacchetta», mentre c’è chi ha scritto di trame internazionali, di Mani Pulite come culmine della guerra fredda, dei suoi rapporti riservati con gli Stati Uniti e di presunte tensioni nel pool, dopo la fuga di notizie sull’invito a comparire recapitato a Silvio Berlusconi.
«Attenzione, molta attenzione perché ho querelato tutti! Ci sono sentenze definitive, a dimostrare la mia correttezza. In ogni caso, è una verità giudiziaria che la fuga di notizie sia venuta dall’entourage di Berlusconi, e non dalla nostra squadra. Il problema è che, allora come oggi, si cerca di screditarmi. Basta insulti! Basta insistere sulla fantasia che il pm Di Pietro sfruttasse la carcerazione preventiva per far confessare la gente».
A proposito: non ha mai provato pietà verso i politici e gli imprenditori che interrogava?
«Mannò... E che remore potevo avere, verso un sistema che stava distruggendo la nazione? Piuttosto: chi è convinto che insistessi troppo, per far parlare la gente, sbaglia di grosso. Avevamo la fila, davanti alla porta, di persone pronte a raccontare tutto. Un giorno, per farsi un’idea, abbiamo chiesto alla Guardia di Finanza di perquisire casa di un imprenditore che abitava vicino alla Torre Velasca. Poi ho saputo che quello aveva confessato al citofono. Manco li ha fatti salire! Subito, alla cornetta, s’è messo a strillare: "Gliel’ho data, la tangente, gliel’ho data!". Non c’era affatto bisogno, ripeto, di costringere qualcuno a parlare».
Ciò non toglie che alcuni ex leoni socialisti, spalle al muro, non hanno retto la tensione. C’è chi si è tolto vita, chi non si è più ripreso. Lo stesso segretario Bettino Craxi, da protagonista assoluto della politica italiana, si è trasformato in un fuggiasco senza ritorno. Qual è il giudizio pubblico e personale che, dopo tanti anni, ha maturato su di lui?
«Continuo a considerarlo un cinico. Anzi meglio: un uomo che, da politico, si è fatto i cazzi suoi. Non sono io a sostenerlo, ma le risultanze processuali. E quello che più mi disgusta, pace all’anima sua, è che ha sfruttato il dossieraggio per fermare e depistare le indagini».
Certo lei non poteva immaginare, all’epoca, che vent’anni dopo l’avrebbero paragonata a Craxi per la gestione dittatoriale del potere e dei soldi nell’Idv.
«E infatti non ha senso, perché la realtà dimostra l’esatto contrario. Sono stato l’unico, tra i leader dei cosiddetti partiti "personali", a rendere lo statuto più democratico. E soprattutto mi sono dimesso, perché so benissimo che il carisma con il tempo si perde: come i capelli...».
Si può ribattere che lei, nel 2006, da ministro delle Infrastrutture del governo Prodi, ha piazzato il suo avvocato Sergio Scicchitano dentro al consiglio d’amministrazione Anas.
«L’ho collocato in quel ruolo per la sua competenza e la sua professionalità: doti che, tra l’altro, gli riconosco ancora».
Non proprio una risposta da partito dei valori.
«Ma scusi: perché avrei dovuto mettere un altro, se lui era più bravo?».
Il dubbio, in sintesi, è che lei abbia sfruttato la sua enorme popolarità, e il bagaglio emotivo di Mani Pulite, per muoversi in politica con troppa disinvoltura.
«Ma figurarsi... Io neppure me ne accorgevo, di chi si assiepava davanti al tribunale ai tempi di Tangentopoli: me lo raccontavano. Non ho mai approfittato del clamore mediatico. Lavoravo a testa bassa dalle cinque o sei del mattino, fino alle nove di sera. Ed è quello che ho continuato a fare. Con il risultato che ho costruito un partito forte sul fronte della protesta, ma non su quello della proposta. O perlomeno: la gente lo ha percepito così».
Non piccolo, come difetto.
«Ho un ricordo del 2001. Quell’anno l’Idv si è presentato alle politiche da solo, ha preso il 3,97 per cento e non è entrato in Parlamento. Io mi fermo con la famiglia all’autogrill di Teramo per fare gasolio, e arriva un pullman che dal Nord sta scendendo in Puglia verso il paese di Padre Pio. La gente mi riconosce e si mette a gridare: "Bravo Di Pietro! Vai Di Pietro! Non ti abbiamo votato, ma vai avanti lo stesso!"».
Un po’ se l’è cercata. Sono usciti mille articoli, sulla gestione oligarchica dell’Italia dei Valori: lei, sua moglie Susanna Mazzoleni e la tesoriera Silvana Mura. Non è uno stile che fa simpatia.
«Ma anche questo è un falso storico, una bugia già accertata in sede giudiziaria una decina di volte».
Di Pietro: lei ha infilato persino suo figlio, nell’Idv.
«Allora. Cristiano non fa politica perché sono suo padre, e non è stato inserito in listini protetti alla Nicole Minetti. Ha fatto la gavetta. Si è candidato, prima di diventare consigliere provinciale e regionale Idv, alle elezioni comunali di Montenero Di Bisaccia».
Che guarda caso è il suo amato paese d’origine. Dopodiché non c’è dubbio, che siano stati altri i peggiori imbarazzi dell’Idv. Nel 2001 Valerio Carrara, unico eletto dei vostri, è passato a Forza Italia ancora prima che aprisse il Senato. Poi c’è stato lo scandalo di Sergio De Gregorio, star della compravendita berlusconiana di senatori, transumato appunto con il Cavaliere. Per non infierire sulla coppia Razzi-Scilipoti, gli ex Idv che a dicembre 2010 si sono schierati contro la sfiducia a Berlusconi.
«Metta a verbale questa risposta. Con la stessa bravura con la quale ha indicato questi quattro nominativi, saprebbe indicare quelli degli altri 161 voltagabbana dell’ultima legislatura?».
Incredibile: lei che risponde con un craxiano «Così fan tutti».
«Nemmeno per idea! È che migliaia di persone si sono avvicinate in questi anni all’Idv, e quelle che hanno avuto problemi con la giustizia si contano sulle dita di due mani. Perché la stampa non è altrettanto fiscale con gli altri partiti?».
Josefa Idem, Pd, si è dimessa a colpi di articoli da ministro delle Pari opportunità per una storia di Imu e destinazione d’uso di una palestra. Nulla in confronto al vostro enfant prodige Vincenzo Maruccio, ex assessore ai Lavori pubblici in Lazio, ora sotto accusa per peculato.
«Però diamogli atto che se n’è andato pure lui, di sua spontanea volontà, sia dal partito che dalla Regione».
Sinceramente: non c’è stato un momento in cui ha capito che l’Idv stava affondando, e che troppi sul ponte facevano i loro comodi?
«Mai avuto il sentore. Se avessi saputo che mangiando quella pastasciutta mi sarebbe venuta la diarrea, mica me la sarei mangiata! Non sono preveggente. Però qui all’Idv, quando scopriamo comportamenti illeciti, interveniamo. Sospendiamo. Espelliamo».
Nel luglio 2009 lei ha comprato una pagina dell’"Herald Tribune" e pubblicato un testo titolato "Democracy is in danger in Italy". Pensa ancora che la democrazia italiana sia in pericolo?
«Più che mai. Dalla prima alla seconda Repubblica non è cambiato niente. Nessuno è più tanto arrogante da pensare di avere diritto all’impunità, ma in compenso si è lavorato per rendere lecito l’illecito. C’era il falso in bilancio? Depenalizzato. C’era la concussione? Modificati il nome e la sostanza. Per non parlare degli impedimenti all’acquisizione delle prove. Questioni delle quali ragionavo, in generale, anche con Gianroberto Casaleggio, con cui ho scritto la famosa pagina dell’"Herald Tribune"».
Casaleggio ghostwriter dell’Idv? Finora si sapeva che, anni fa, aveva seguito le vostre attività on line.
«Siamo sempre legati da amicizia e rispetto reciproco. Per dire: di recente un giornalista ha iniziato a chiedermi di lui. Quando ha sentito che davo giudizi positivi, mi ha fermato: "Guardi che, in realtà, sto cercando qualcuno che ne parli male..."».
Nome del cronista e del giornale, per cortesia.
«Scriva: "Di Pietro si avvale della facoltà di non rispondere"».
Scrivo anche che lei ha una certa facilità, a prendersela con i giornalisti. Basti vedere quanto si è agitato dopo l’inchiesta di "Report". Non è pentito, a freddo, di avere attaccato Milena Gabanelli?
«Ma non ce l’ho con lei personalmente! Cioè, spiego meglio: sto preparando una causa civile, contro Gabanelli e "Report", anche se la posizione della giornalista è secondaria. Mi interessa avere una sentenza nella quale c’è scritto che alcuni fatti riferiti in trasmissione sono falsi al cento per cento».
Lei comunque ha sparato pure contro il satiro Maurizio Crozza, accusandolo di «killeraggio» perché dopo "Report" ha detto che «Di Pietro doveva cambiare il Paese, e invece ha cambiato un sacco di case».
«Ma insomma, cercate di capirmi... È stata l’immediatezza del fatto... Il dolore provato... Credo di essere giustificabile. Colgo comunque l’occasione per riconoscergli il diritto alla satira, e per inviargli un caro saluto e ringraziarlo per avermi fatto trascorrere allegre serate. Dopodiché prendo atto, a questo punto dell’intervista, che a nessuno gliene frega niente, di quanto di buono ha fatto finora l’Italia dei Valori».
Non faccia così, Di Pietro. Nessuno ha mai taciuto, ad esempio, l’importanza del vostro impegno referendario, partendo dal nucleare fino alla difesa dell’acqua pubblica. E poi c’è già Beppe Grillo, che parla sempre bene di lei. L’ha addirittura indicata come l’«uomo giusto» per il Quirinale. Di più: ha detto che lei è stato «l’unico a tenere la schiena dritta in un Parlamento di pigmei».
«E ha ragione! Che brava persona, Beppe. Un po’ mi rivedo, in ciò che gli stanno facendo. Ancora una volta, la disinformazione cerca di convincere gli italiani che i guai del Paese stanno in chi protesta perché gli sono stati pestati i piedi, e non in chi insiste a pestare questi poveri piedi».
Risultato: Grillo, a colpi di charme moralizzatore, l’ha superata sul suo stesso terreno.
«Non ho niente da rimproverarmi. Al di là del dispiacere per chi ci ha usato e poi sputato in faccia, ho commesso solo due errori strategici, che in ogni caso rifarei di corsa. Il primo è non avere appoggiato il governo di Mario Monti, un ragioniere che ha fatto pagare il conto ai più deboli e onesti. E il secondo, non avere taciuto sull’arroganza con cui l’ufficio di presidenza della Repubblica ha gestito il caso della trattativa Stato-mafia. È da questo uno-due, che sono partiti la defenestrazione e l’isolamento dell’Idv dalle istituzioni».
Il che suonerebbe ancora peggio se davvero, come ha sostenuto oggi, agenzie di dossieraggio avessero operato negli anni per condizionare lei e altri soggetti pubblici. Non le sembra opportuno, vista la delicatezza del tema, entrare subito nel merito?
«Abbiate un po’ di pazienza. Lasciate che i magistrati facciano quello che devono. E nel frattempo, non dimenticate che per me il lavoro più duro, all’epoca di Mani Pulite, non è stato indagare ma difendermi dai dossier. Come dicevo prima, niente è cambiato in questo Paese».