Federica Bianchi, l’Espresso 12/7/2013, 12 luglio 2013
RIPRENDIAMOCI LA PRIMAVERA
È quasi l’una del mattino al bar "L’aubergine" del ricco quartiere di Zamalek al Cairo, uno dei pochi posti dove trovare una birra a un giorno dall’inizio del Ramadam. Alfred Raouf, un bel ragazzo dagli occhi verdi e dal sorriso contagioso che milita nell’ala giovanile del partito al-Doustour del neoeletto vicepresidente Mohammed El Baradei, il leader della coalizione rivoluzionaria, vuole discutere di un’idea che ha appena iniziato a circolare in rete. «E se organizzassimo una marcia con le donne alla testa in segno di non aggressività e andassimo incontro agli islamisti a Rabaa per dire loro che non li vogliamo escludere completamente dalla scena politica? Che dite, potrebbe funzionare? Li farebbe calmare?».
Mentre i leader dei Fratelli musulmani al grido di «legalità o morte» incitano i loro seguaci a rimanere a oltranza davanti alla moschea di Rabaa nel quartiere islamista di Nasser City in sostegno del deposto presidente Mohammed Morsi, e mentre, dopo giorni di estenuanti trattative tra liberali e salafiti, il nome del nuovo premier - Hazem el-Beblawy, un economista liberale che aveva appoggiato la rivoluzione e che probabilmente gestirà nuove elezioni entro sei mesi - diventa ufficiale, Raouf e tutta quella fetta di società civile che aveva spinto il Paese a ribellarsi al regime di Hosni Mubarak due anni e mezzo fa continua a lavorare per non farsi scippare la rivoluzione. Non un’altra volta.
Basta fare un giro in piazza per capire che l’obiettivo è ormai vicino. A differenza del piazzale antistante la moschea di Rabaa, simile a un campo profughi, con tanto di tendoni di plastica, pacchi di vestiti usati e odore di urine, Tahrir ha assunto l’aspetto di una piazza europea, con concerti tutte le sere, carretti che vendono snack, tè, succhi di mango e T-shirt come souvenir della rivoluzione. Sono apparsi perfino i tavolini dei caffè con consumazione obbligatoria, nemmeno si trovassero in piazza del Popolo a Roma.
Fino a una settimana fa erano davvero in pochi a credere ancora in questa coalizione instabile e contraddittoria ma irrevocabilmente modernista di socialisti, liberali e islamici moderati. Quando i Fratelli musulmani, un’organizzazione islamista a lungo perseguitata dai regimi dittatoriali arabi che ha come obiettivo l’islamizzazione della politica, avevano vinto le elezioni del dopo Mubarak sembrava essere sceso il gelo dell’inverno sulla "Primavera araba". Invece, tra la sorpresa mondiale, la società egiziana ha resistito per oltre due anni al tentativo della Fratellanza di monopolizzare la politica. E lo ha fatto perché l’obiettivo della rivoluzione egiziana del 25 gennaio non era solo quello di liberarsi da un regime dittatoriale ma soprattutto quello di permettere a un Paese storicamente guida del mondo arabo di uscire dallo stallo economico, culturale e sociale in cui quel regime l’aveva obbligato. Un governo strettamente islamista sarebbe stato d’ostacolo. «Morsi ci stava riportando indietro di mille anni», dice senza mezzi termini Mohammed Halaf, una volta generale dell’esercito oggi professore di scienze politiche: «Noi avevamo provato a combattere i Fratelli ma la gente per anni li ha difesi, soprattutto gli strati deboli della popolazione. Fortunatamente è bastato che governassero un anno perché potessero essere messi fuori gioco». Fuori gioco forse no, sottolinea dalla London School of Economics Fawaz Geges: «Ma sicuramente la loro inaspettata inettitudine al governo ne ha ridotto il consenso dentro e fuori l’Egitto».
Se le fortune della Fratellanza sono cambiate tanto velocemente è stato per un insieme di fattori. Innanzitutto per un eccesso di fretta nel conquistare il controllo del Paese. Durante i 18 giorni di piazza Tahrir avevano detto che non avrebbero mai candidato uno di loro alla presidenza: «Avrebbero fatto meglio ad attenersi al piano originario. A quest’ora non si ritroverebbero per strada a lottare per la sopravvivenza», spiega Moktar Nouh, un celebre avvocato, ex fratello musulmano, vicino al leader islamista Abdoul Foutou. «La gente aveva riposto enormi speranze su di loro, forse esagerate, e loro si sono rivelati dei grandi incompetenti». Dalla strada gli fa eco Ashraf, un cameriere con il livido della preghiera stampato in fronte che anziché servire ai tavoli rimane incollato alla televisione: «Io sono uno di quegli stupidi che avevano votato per i Fratelli. Pensavo che essendo così religiosi avrebbero preso le decisioni migliori. E invece hanno ucciso due ragazzi gettandoli nel vuoto. Nemmeno gli israeliani erano mai arrivati a tanto. E poi incolpano l’esercito!Questi non sono fratelli musulmani questi sono fratelli sporchi», si sfoga mentre sul video scorrono le immagini di un recente episodio di violenza da parte dei Fratelli ad Alessandria che ha scioccato la nazione, impedendo alla gente di simpatizzare con le loro perdite per mano militare.
Gli errori politici di Morsi, su cui l’opposizione ha ampiamente capitalizzato («A volte mi chiedevo se Morsi lavorasse per i Fratelli o per noi», sorride Sharif El Ruby, leader trentenne del movimento rivoluzionario del 6 Aprile), sono stati tanti e costanti. Il più detestato è forse l’atto con cui lo scorso novembre si era avocato l’immunità costituzionale e speciali poteri. Ma aveva già cominciato male con la nomina di un nuovo procuratore generale scelto in prima persona senza passare per la rosa di tre candidati tradizionalmente offerta dalla Corte suprema, alienandosi il sistema giudiziario. Aveva dimostrato incapacità nel gestire i problemi economici del Paese con piccoli gesti come quello dello scorso 12 dicembre quando prima aumentò alcune tasse e poche ore dopo dovette rimangiarsi la parola. Per non parlare della convocazione del nuovo parlamento nonostante fosse stato dichiarato incostituzionale dalla Corte suprema e del cambiamento dei confini dei distretti elettorali da lui voluto per garantirsi una solida maggioranza in futuro. Come se non bastasse, aveva perfino estromesso i salafiti, islamisti ancora più radicali dei Fratelli, dall’iter decisionale del governo.
«Aveva fatto il vuoto intorno a sé», racconta Ibrahim Nawar, membro del Consiglio supremo del partito al-Doustour: «Non aveva alleati politici, né sostenitori nell’apparato giudiziario, non aveva amici tra i giornalisti e neppure tra gli intellettuali da cui era letteralmente detestato. Non lo voleva la burocrazia del Paese e nemmeno la classe imprenditoriale che si sentiva minacciata dai nuovi arrivati. Senza rendersene conto aveva perso anche il consenso delle fasce più basse della popolazione che si aspettavano una qualche soluzione ai loro problemi, dal traffico paralizzante alla povertà incalzante, e non avevano ricevuto nulla». Senza contare poi che quella che sarebbe potuta essere una solida alleanza con l’unica organizzazione forte del Paese, l’esercito, non ha mai funzionato. L’uccisione dei 16 militari ad opera dei militanti di Hamas nel Sinai lo scorso agosto, volta a screditare l’immagine dell’esercito, ha definitivamente convinto il ministro della Difesa, il generale Abdel Fattah al-Sissi che con Morsi non avrebbe mai potuto lavorare, nonostante la pressione esercitata dall’amministrazione americana.
«Noi ci eravamo resi conto già dal 19 marzo del 2011 (giorno in cui con un referendum sono stati approvati gli emendamenti costituzionali) che la rivoluzione ci era stata rubata e che avremmo dovuto trovare un modo per rimetterla sui giusti binari», continua Nawar. Fin da quella prima votazione il Paese si era spaccato tra islamisti e non islamisti, con la particolarità che chi non votava a favore delle decisioni dei Fratelli era additato come infedele. Le cose hanno cominciato a cambiare nel novembre 2012, quando il presidente ha cercato di concentrare i poteri nelle mani sue e dei Fratelli: a quel punto anche chi aveva votato per Morsi ha cominciato a dubitare delle sue buone intenzioni e delle sue reali capacità. Poche settimane dopo sono cominciati disastrosi black out energetici: gli approvvigionamenti di petrolio non bastavano più, costringendo le fabbriche a chiudere e la gente ad andare a piedi, tra la crescente rabbia popolare contro il governo. Che dietro ci potessero essere anche responsabili diversi dai Fratelli resta il dubbio inconfessato di tutti, visto che la situazione è tornata alla normalità il 30 giugno. Ma oggi a nessuno interessa assegnare responsabilità tanta è l’insofferenza per i Fratelli. «Lo scontento crescente della gente andava incanalato», continua Nawar, «ma il problema era che noi liberali eravamo a corto di idee e di volti nuovi. Le prime linee dei movimenti di Kefaya, del 6 Aprile e del Fronte di salvezza nazionale erano già note e avevano espresso il loro supporto iniziale a Morsi. La gente non aveva più fiducia nei partiti». Nemmeno le trattative nascoste con i militari avrebbero potuto portare da sole a una soluzione anti Morsi, visto che l’esercito non avrebbe mai agito senza un chiaro consenso popolare.
L’idea risolutiva venne a Mahmoud Badr, un producer televisivo diventato attivista con la rivoluzione del 25 gennaio, un membro di quelle seconde e terze linee di comando dei movimenti rivoluzionari che stanno oggi rimpiazzando i leader di due anni fa: «Perché non chiedere alla popolazione di sottoscrivere una petizione per la rimozione di Morsi e poi inviare le firme, regolarmente registrate con tanto di documenti di identità, al Tribunale internazionale dell’Aja e magari alle Nazioni Unite?». Così inizia la raccolta con fondi e mezzi propri, dentro e fuori le città, fin quando, arrivati a 750 mila firme, i giovani attivisti colgono l’attenzione di Hamdin Sabbahi, il leader del partito nasseriano.
Sabbahi decide per primo di appoggiare l’iniziativa soprannominata Tamarrod, ribelle. Annunciata ufficialmente il 22 aprile, la campagna trova poi l’immediato appoggio della stampa egiziana che la rilancia e l’appoggio di centinaia di migliaia di volontari improvvisati che fotocopiano i moduli da sottoscrivere e li distribuiscono a parenti e colleghi. La rivoluzione è di nuovo in strada. Patrimonio di tutti e non solo di un partito. Ben presto, e siamo a maggio, si accodano a Tamarrod anche gli altri partiti del Fronte per la salvezza nazionale e El Baradei offre agli attivisti l’utilizzo delle sedi del proprio partito in tutto il Paese. Sono questi i giorni in cui le firme diventano milioni e i giovani di Tamarrod decidono di organizzare una manifestazione nazionale il 30 giugno, anniversario dell’ascesa di Morsi al potere. «Ci ripetevamo che se anche la metà dei 7 milioni di firme che avevamo raccolto fino a quel momento fosse scesa in strada sarebbe stato un evento importante», spiega Mohammed Khamis, uno degli organizzatori della campagna che per settimane ha vissuto in un ufficio dietro piazza Tahrir. Alla fine le firme sono state 22 milioni. Le persone in piazza 30 milioni.
«Stiamo finalmente diventando dei politici veri», chiosa Khamis che sull’altare della giovane politica ha sacrificato le sue attività sulle spiagge del Sinai. Il cammino che dovranno compiere i politici dell’Egitto di domani è però ancora lungo come dimostra il fatto che, in mancanza di istituzioni democratiche consolidate, abbiano avuto bisogno sia della piazza che dell’esercito per far valere i propri numeri. E che i Fratelli musulmani reclamino ora il loro diritto alla piazza. Ma ormai è sempre più improbabile che la voce di un popolo che ha scoperto il fascino della dialettica politica, sociale e perfino religiosa torni a essere seppellita tra le sabbie del suo deserto agli ordini di un’unica ideologia.