Antonio Ferrari, Sette 12/7/2013, 12 luglio 2013
QUEI SETTE CONFINI DELLA TURCHIA DOVE C’È LA CHIAVE DEL SUO DESTINO
Nell’inquieta Turchia di questa turbolenta estate internazionale, tormentata dal bisturi on line di un Grande Fratello sempre più invasivo, si va a caccia di spiegazioni ragionevoli, nella speranza di trovare il punto da cui tutto ha avuto origine. Che non è quello che molti immaginano, e cioè l’aspro scontro tra le due anime del Paese: da una parte i laici, molti dei quali continuano a nutrire nostalgie di intransigenza kemalista; dall’altra gli islamici, molti dei quali confidano in un peso maggiore della religione nella vita politica. Una convincente interpretazione di quanto sta accadendo è assai più sociale che politica. Rispondendo sul Corriere della Sera del 2 luglio scorso a un’arguta lettera di Luca Erizzo, profondo conoscitore della Turchia e discendente da un doge veneziano, Sergio Romano scrive riferendo una nota di Gianfranco Verderame per Lettera diplomatica, bollettino quindicinale dell’associazione che raggruppa molti ex ambasciatori. Verderame parla di un politologo turco che ha spiegato la situazione con illuminante semplicità: «Nell’ultimo decennio le politiche economiche dell’Akp (il partito di Erdogan) hanno trasformato la Turchia in una società dove la classe media è diventata maggioranza. Si è alzato il tenore di vita, la povertà è stata arginata, c’è stata la crescita economica. Ma adesso la classe media chiede il rispetto dei diritti individuali, e pone al partito di governo la questione di come definire la democrazia».
La forza della nuova classe media turca ha infatti modificato antropologicamente la tradizionale distribuzione sul territorio di una popolazione assai composita. È un fenomeno che si raccorda con la massiccia urbanizzazione di micro-imprenditori, piccoli commercianti e professionisti dell’Anatolia profonda e di un Sud-Est troppo periferico, che hanno abbandonato le certezze agresti e provinciali per cercare fortuna soprattutto a Istanbul, avvinti dagli incantevoli tentacoli di una città meravigliosa, alla quale non ha resistito neppure Dan Brown nel suo ultimo romanzo Inferno.
L’arte di arrangiarsi. I turchi sono sempre stati maestri nell’arte di arrangiarsi, anche quando il Paese viveva di diffusa povertà, lasciando ingrassare la casta dei miliardari che tutti conoscevano e rispettavano, e moltissimi servivano. Poco più di dieci anni fa, quando un caffè costava un milione e mezzo di lire turche, un giornale quotidiano un milione, e l’inflazione sfiorava il 70%, si respirava una specie di fatalismo diffuso. Qualche osservatore sosteneva, con una condiscendenza tangente al razzismo, che «i turchi sono un popolo modesto e obbediente, guidato da leader di livello alto, comunque superiore a quello del popolo». Sul livello alto dei leader ci sarebbe molto da obiettare, però di sicuro vi è sempre stata l’obbedienza della gente: obbedienza che però sembrava figlia della tolleranza levantina con cui venivano considerati gli affari e i traffici (spesso illeciti). Nelle campagne, vicino ai confini con la Georgia, l’Armenia, l’Iran, l’Iraq e la Siria è poi molto esteso, quasi dominante, un rispetto naturale per la religione, soprattutto quando la religione si nutre di poesia. Il culto del Darvish, che in un certo senso è come un monaco, pare davvero illuminante. Darvish è una persona saggia che vive in povertà, adattandosi alla semplicità, alla limpidezza, e distanziandosi dal materialismo e delle altre debolezze umane.
Mutazione antropologica. Ma è chiaro che oggi, con la mutazione di cui si parlava, e che probabilmente è all’origine della rivolta per gli alberi del Gezi Park, il semplice obiettivo di una vita serena è stato attaccato e pesantemente intaccato dal denaro, dalla nuova ricchezza e da una nuova consapevolezza. Ottenuta, in discreta quantità, la soddisfazione economica, adesso la classe media rivendica una maggiore libertà, alimentata dall’immagine del Paese vincente. Immagine sostenuta e propagandata dallo stesso premier islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan. Ma il primo ministro, indubbiamente abilissimo e carismatico, è troppo presuntuoso e arrogante per cogliere compiutamente l’ossimoro: è difficile infatti coniugare il ritorno alla conservazione sociale (e religiosa, in senso islamico) più rigida, con il capitalismo assoluto, e con una politica estera decisamente ecumenica e conciliante, soprattutto con il mondo arabo. Come ha scritto con efficacia Valeria Giannotta, intelligente e giovane ricercatrice italiana che lavora nel dipartimento di scienze politiche e relazioni internazionali dell’Università Sabahattin di Istanbul, bisogna partire dal motto della nuova strategia turca: «Zero problemi con i vicini» e capire perché «la Turchia aspira allo status di potenza globale, sfruttando la propria collocazione geopolitica e la propria capacità di irradiazione culturale e di sviluppo economico basato sulle relazioni speciali con i vicini, ereditate dall’impero Ottomano».
La Turchia rifiuta ancora, ostinatamente, l’esame di coscienza sul suo passato, a cominciare dal genocidio armeno, che se non fu genocidio è come se ne fosse il fratello gemello. Un fratello che si può pure definire massacro sistematico, compiuto negli anni del disfacimento dell’impero. Però la giovane generazione, stanca di dogmi, è pronta a discuterne. E poi con l’Armenia non soltanto è cominciato il disgelo, ma si va verso la normalizzazione. Celebrata, se così si può dire, dai presidenti dei due Paesi, su un campo di calcio, durante le qualificazioni mondiali (per il 2010) delle due squadre, che erano state collocate nello stesso girone.
Con il gigante iraniano, Ankara ha un rapporto duale: lo accarezza e lo teme. L’elezione dell’hojatoleislam Hassan Rohani può sicuramente migliorare il clima politico tra le due Repubbliche, ma c’è sempre il problema della minoranza curda. I curdi, divisi in quattro Paesi (Siria, Iraq, e appunto Iran e Turchia) hanno un sogno per ora irrealizzabile, e cioè il proprio Stato, come era stato promesso a Sevres, ma in subordine perseguono un obiettivo più realistico, quello della maggiore autonomia.
È chiaro che i curdi dell’Iraq, altro Paese confinante con la Turchia, non soltanto sono autonomi, ma a Baghdad sono i veri comprimari del potere. E sono i primi sponsor dei curdi siriani, ai quali il regime di Bashar Assad ha concesso molte libertà per evitare l’apertura di un nuovo fronte. È chiaro che per la Turchia l’obiettivo primario era di trovare un accettabile compromesso con i propri curdi, condizionati dal Pkk, il movimento rivoluzionario (che utilizzava sistemi terroristici) guidato da Abdullah Ocalan, che sta scontando l’ergastolo sull’isola di Imrali, nel mar di Marmara. Il cessate il fuoco, proclamato da Ocalan dopo estenuanti trattative con il governo di Ankara, è stato un regalo importante per Erdogan: avvenuto proprio nel giorni in cui, grazie alla mediazione del presidente americano Barack Obama, si è allentata la tensione tra la Turchia e Israele.
Potenza regionale. Sono molto particolari e interessanti i rapporti della Turchia con la Bulgaria, nonostante i secoli dell’occupazione ottomana. Tanto per cominciare in Bulgaria vive una cospicua minoranza musulmana di origine turca, che politicamente esprime una rispettata forza politica, quasi sempre decisiva nella formazione dei governi che si sono succeduti dopo la caduta del regime comunista di Todor Zhivkov. Regime che non rispettava i diritti umani di nessuno, e men che meno quelli della minoranza musulmana, ritenuta una spina nel fianco della Repubblica socialista. Al punto che il vertice decise di procedere alla slavizzazione coatta dei nomi dei bulgari di origine turca. Oggi, i rappresentanti del movimento sono ovviamente al governo, sostenendo i socialisti che ne sono al timone. Tuttavia, c’è un altra importante cerniera che ha legato bulgari e turchi: l’attrazione per il levantinismo. Anche negli anni più duri della dittatura comunista, nel Paese ci si arrangiava con il mercato nero e con traffici che il regime tollerava. Seguendo le regola di un tacito compromesso: obbedienza in cambio di tolleranza. Se uno era obbediente, si chiudeva un occhio, e anche tutti e due. Ecco perché in Bulgaria ti sentivi assai più libero che nella Romania di Nicolae Ceausescu.
Un capitolo a parte spetta alla Grecia. Lo scambio di popolazioni, negli Anni 20 del secolo scorso, fu indubbiamente doloroso, ma creò le condizioni per la pace. I greci, tuttavia, non hanno mai dimenticato oltre 400 anni di occupazione, e soprattutto a livello popolare il sentimento di ostilità è rimasto. Ma già oggi, a differenza di vent’anni fa, le giovani generazioni guardano alle sofferenze di un lontano passato con occhi disincantati. Tra Grecia e Turchia i contenziosi sono tanti: a cominciare dalla questione di Cipro, isola divisa, con una parte turca che il mondo non vuole riconoscere come Stato; continuando con la sovranità sullo spazio aereo dell’Egeo orientale. Nella seconda metà degli Anni 90, si rischiò addirittura la guerra per un isolotto, di nome Imia, abitato soltanto da capre, sul quale un provocatore aveva piantato la bandiera con la mezzaluna. Atene continua, emozionalmente, a considerare Istanbul una città greca. La chiamano tutti, rigorosamente, Costantinopoli. Però da quando è arrivato al potere Erdogan, i rapporti con la Chiesa ortodossa sono decisamente migliorati. Il patriarca ecumenico Bartolomeo I vive al Fanar di Istanbul, è cittadino turco, e vota per l’Akp: non certo per costrizione ma per solida convinzione. I cristiani, in Turchia, sono assai più liberi oggi che nei decenni del laicismo esasperato.
In soccorso della Grecia in crisi. Quando è cominciata la spaventosa crisi economica della Grecia, il primo leader politico giunto ad Atene con la mano tesa, pronto a offrire collaborazione, è stato proprio Erdogan, accompagnato da ministri e uomini d’affari. E poi è necessario sottolineare un passaggio: la Turchia, pur raffreddata e disincantata, continua a guardare all’ingresso nell’Unione Europea come a un obiettivo da raggiungere. Nonostante la rivolta di piazza Taksim, le trattative sui vari capitoli del negoziato stanno per ripartire. E la più grande sostenitrice dell’ingresso della Turchia nella Ue è ovviamente la Grecia. La ragione è semplice. Vorrebbe dire un brusco taglio a spese militari che diventerebbero inutili. Ma che oggi sono tra le più alte in assoluto.