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 2013  luglio 12 Venerdì calendario

IL CIELO È IN UNA STANZA MA FUORI È SCANDALO AL SOLE

Stati Uniti, 1959. Il regista Delmer Daves dirige il film A Summer Place, tratto al romanzo di Sloan Wilson. La trama è esile. Complice una vacanza, due ragazzi si innamorano così come erano stati innamorati i loro genitori. Con una complicazione essenziale: i due ragazzi sono adolescenti e liberi, mentre i loro due genitori, ora, sono regolarmente coniugati. Con altri. È quindi scandalo: per quanto tenuto sotto la cenere, quel fuoco giovane esplode come potrebbe riesplodere il fuoco adulto (e adultero) dei genitori, affermati, benpensanti, americani della America del cambiamento. Ed è uno scandalo caldo come l’estate, quinta scenografica della vicenda. Uno Scandalo al sole, titolo con il quale arriverà in Italia nel 1960, preceduto dalla colonna sonora di Max Steiner, infinita. Paradossalmente il film benché esile, fa da spartiacque in quell’anno, apparentemente ancorato saldamente alla tradizione, alle regole, ai comportamenti sociali controllati, ma inevitabilmente proiettato verso la fine del millennio. La guerra calda sembra archiviata: ma è guerra fredda, in una gara continua tra Occidente e Oriente. Le due superpotenze (Stati Uniti e Unione Sovietica) corrono, si rincorrono, tentano quotidianamente di superarsi, contribuendo a dare il senso del domani. E tutto questo voler divorare il tempo, voler tentare di arrivare primi ovunque, voler bruciare le tappe come gli stadi dei missili sparati verso lo spazio, dà spazio al futuro lasciando lontano il passato della guerra calda chiusa solo quindici anni prima. 1960: se Scandalo al sole può essere una colonna sonora abbastanza rappresentativa dell’anno, c’è un altro ritmo caratterizzante il momento. È la scansione del tempo data dal conto alla rovescia. Sì, certo: proprio il conto alla rovescia dei lanci missilistici. «Cinque, quattro, tre, due, uno, zero», meglio se detto in americano. Creava attesa anche se l’attesa era per veder decollare un razzo con destinazione spazio: si apriva una finestra sul futuro. Del resto, nemmeno sessanta anni prima di quel 1960 i fratelli Wright tentavano il cielo svolazzando per qualche decina di metri su macchine improbabili. Alle nonne del 1960 sembrava impossibile: loro avevano sentito e visto quei tentativi sperimentali, al confine con il ridicolo. E ora il progresso andava in onda, in televisione, sparato verso il cielo, destinazione luna.
Nel 1960 si guarda al Duemila e alla luna: non come per secoli avevano fatto artisti e poeti. Ma si immagina un mondo diverso: più moderno, più veloce, più disinvolto, più libero e meno antico, meno impacciato, meno legato a schemi e consuetudini secolari.

Suona un’armonica. Un mondo più e meno. Più rivolto al cielo e meno alla terra. Non a caso c’è tanto cielo nelle canzoni di quel 1960. E Il cielo in una stanza è la più ascoltata in senso assoluto. Scrive Gino Paoli, arrangia Tony De Vita, canta Mina: «Quando sei qui con me/questa stanza non ha più pareti ma alberi,/alberi infiniti quando sei qui vicino a me/questo soffitto viola no, non esiste più./Io vedo il cielo sopra noi che restiamo qui abbandonati/come se non ci fosse più niente, più niente al mondo./Suona un’armonica mi sembra un organo/che vibra per te e per me su nell’immensità del cielo./Per te, per me: nel cielo». Anche qui si vede uno sguardo differente sul mondo, a prescindere dal tema cielo. «Ma che razza di canzone è questa», si chiedevano gli amanti del bel canto all’italiana, quello del cuore in rima con amore, quello del cantar con la mano sul petto con voce ferma e con postura sobria. Figuriamoci quando – narra la leggenda – Paoli dichiara la sua ispirazione sul soffitto viola, derivata dal colore dell’intonaco di alcune case per appuntamenti, chiuse ufficialmente nel 1958, ma evidentemente ancora presenti non solo nell’immaginario. Gli amanti del bel canto all’italiana non si rassegnavano anche se due anni prima c’era stato il fenomeno Nel blu dipinto di blu cantato con voce e braccia aperte: ma per costoro, sembrava un episodio circoscritto. E invece no. Già Anna Maria Mazzini, in arte Mina, aveva sufficientemente sconvolto quel pensiero antico e retrospiciente verso gli anni del dopoguerra: urlava e non cantava. E con lei la fine dei Cinquanta vedeva – o meglio, sentiva – gli urlatori. Oltre a essere un anno iniziato di venerdì e bisestile, quel 1960 era bifronte: come Giano, la divinità dei latini a doppia faccia. Il 1960 guardava simultaneamente avanti e dietro: tendeva al progresso, all’evoluzione, al nuovo e – al tempo stesso, avendone paura – reagiva conservando. Una caratteristica evidente ancora una volta nella canzone. In quell’anno Dino Verde scrive Romantica per Renato Rascel. «Tu sei romantica, amica delle nuvole» e, a Sanremo, mentre Renatino la canta Tony Dallara la urla, singhiozzando alla maniera dei Platters. Appunto: più e meno, tradizione e innovazione, passato e futuro, ieri e oggi nell’anno bisestile e bifronte. Era iniziato di venerdì: per i superstiziosi, segno funesto. Di fatto, il giorno dopo, sabato 2 gennaio, arriva la prima notizia negativa: alle 3.30 del mattino muore Fausto Coppi. Domenica 3 gennaio, il Corriere della Sera apre con un titolo su sei colonne: «Fausto Coppi si è spento/vittima del morbo misterioso».
Così Egisto Corradi, inviato speciale a Tortona: «Tortona 2 gennaio, notte. Fausto Coppi è morto sedici ore dopo essere stato ricoverato all’ospedale civile di Tortona, alle 8.45 di stamane. Era entrato in agonia verso le 3.30. Qualche minuto prima aveva detto a suo fratello Livio, tenendo gli occhi chiusi: “Livio, che male sento”. Sono state queste le ultime parole sue, fra le pochissime pronunciate, a fatica, da ieri sera. Al momento del trapasso, erano al suo capezzale il fratello Livio, il cappellano dell’ospedale mons. Lorenzo Ferrarazzo, il primario prof. Giovanni Astaldi, i medici Carlo Poggi e Giustino Meardi, una suora. La signora Giulia Occhini, che lo aveva accompagnato all’ospedale, era stata allontanata cinque minuti prima. La signora Bruna Ciampolini, la moglie dalla quale Coppi viveva separato da cinque anni, è entrata alle tre di stamane in ospedale, dopo essere giunta in automobile da Varazze, dove si trovava con Marina». E qui c’è la sintesi dell’anno bifronte. La sintesi è in una storia rigorosamente tenuta nascosta ai bambini di quel 1960. Vestiti come piccoli adulti, non lo potevano essere del tutto. Un atteggiamento bifronte anche per loro nella forma e nella sostanza. Nella forma: dalla vita in su dovevano assomigliare ai grandi. E quindi camicia con i pizzi lunghi (tendenzialmente bianca), cravattino con nodo scappino, simile in tutto e per tutto alle cravatte dei papà, ma con il particolare non secondario di non essere una cravatta propriamente detta, ma una cravatta finta, con un nodo vero dal quale partivano due fascette chiuse da un elastico, palestra del divertimento dello zio buontempone o del compagno di banco dispettoso, sempre pronti a dare una tirata al nodo e rivelare il trucco della cravattina a yo-yo. Sulle spalle, una giacca blu a bottoni d’oro, identica in tutto e per tutto a quelle dei signori eleganti, vagamente anglosassoni. Anglosassoni anche le scarpe. Ma nel mezzo, compreso fra i piedi e il torace vestiti, si manifestava il bifronte. Eccolo: pantaloni al ginocchio con bottoncini ai lati più o meno all’altezza del menisco esterno e calzettoni bianchi alti fin sotto la rotula. Meglio se con un piccolo risvolto.

Arrestata per amore. Per questi bambini-adulti Fausto Angelo Coppi era solamente un campione del ciclismo: lo si poteva evocare giocando a tappini per strada e ripetendo le gesta contrapposte a quelle di Gino Bartali su una pista disegnata sull’asfalto del marciapiede con il gessetto rubato a scuola. Null’altro. E se durante un notiziario qualsiasi, qualcuno si lasciava sfuggire l’espressione «dama bianca» di fronte ad un bambino-adulto, immediatamente qualcun altro cambiava discorso rapidamente. E se il bambino-adulto dimostrava una sia pur piccola punta di interesse, il qualcun altro sentenziava: «Sono discorsi da grandi e tu non puoi capire. Capirai quando sarai grande», innescando immediatamente quella voglia di domani, caratteristica degli Anni Sessanta. Per cui i bambini-adulti non vedevano l’ora di arrivare al domani per poter capire, poter guidare l’automobile, potersi fare la barba e potersi togliere quella cravatta yo-yo e indossarne una da adulto, senza rischiare la spiritosaggine dello zio buontempone o il dispetto del compagno di banco. Ma cosa non poteva sapere quel bambino-adulto? Chi si nascondeva dietro l’espressione “dama bianca”? È uno scandalo al sole, precedente di qualche anno la colonna sonora di Max Steiner. Così il Corriere della Sera di venerdì 10 settembre 1954: «Alessandria 9 settembre notte. Giulia Occhini, sposata Locatelli, è arrestata. Sono le ore 20. Lei si trova nella Villa di Fausto Coppi a Novi Ligure. Arriva nel giardino della villa un’automobile con a bordo un ufficiale dei carabinieri e uno della Squadra investigativa di Alessandria. “Signora, ci deve seguire per comunicazioni che la riguardano”. E lei, Giulia, ignara di quanto l’aspettasse, non porta con sé nemmeno una borsa, pensando di cavarsela in pochi minuti. Alle 21.15 Giulia Occhini entra nel carcere di Alessandria. Cosa era successo? Così, una delle tante fonti sul tema: «Giulia Occhini, moglie del dottor Locatelli, medico condotto di Varano Borghi e appassionato tifoso coppiano, nell’estate del 1948, durante la Tre Valli Varesine, spinta proprio dal marito, chiede un autografo al campione Fausto Coppi. Due anni dopo è ancora Locatelli a farsi accompagnare dalla moglie a far visita al campione, ricoverato in ospedale per un incidente. Nasce una profonda amicizia. Nell’estate del 1953 sboccia la grande passione, Fausto e Giulia diventano amanti. Tra loro si susseguono incontri brevi, furtivi, finché a Lugano, durante i campionati del mondo, un giornalista racconta di una donna col montgomery bianco che si trova ovunque si trovi Coppi. La caccia alla misteriosa “dama bianca” termina a Garda, quando gli amanti informano i rispettivi coniugi di voler vivere insieme. Mentre Coppi e la moglie Bruna Ciampolini (da cui aveva avuto la figlia Marina, nata l’11 novembre 1947) chiedono ad inizio settembre 1954 la separazione consensuale con l’affidamento della figlia Marina alla mamma, la reazione di Locatelli è violenta. Giulia scappa di casa. Di notte, alla fine di una gara disputata a Torino, Coppi la raggiunge in un albergo di Tortona. Vivono assediati da cronisti e fotografi, condannati dalla morale del tempo. Essendo, infatti, entrambi già sposati, la relazione suscitò grande scandalo e fu fortemente avversata da una parte dell’opinione pubblica; persino il Papa Pio XII giunse a condannarla apertamente. Locatelli denuncia la moglie per adulterio ed abbandono del tetto coniugale che la notte del 9 settembre 1954 viene arrestata».
Scandalo al sole di fine estate di quel 1954. Fausto Coppi e Giulia Occhini sono condannati ad Alessandria. Tre mesi a lei, due mesi a lui. Tutte e due per abbandono del tetto coniugale. Si sono amati, da sposati, tutti e due. Tutti e due adulteri per la legge italiana, però lei (Giulia Occhini) è più adultera di lui e quindi deve scontare di più in quell’Italietta ricostruita nel segno del lavoro (sostantivo maschile). E gli italiani saranno pronti a dimenticare subito il peccato di Fausto, campione (sostantivo maschile) addossando a Giulia la colpa (sostantivo femminile). Fausto tiene alto l’onore dello sport (sostantivi maschili tutti e due), Giulia diventa sinonimo di infedeltà e corruzione (sostantivi femminili tutti e due). Forse il vero scandalo è stato proprio quel mese di galera in più assegnato ad una donna innamorata (sostantivi femminili). E quando Fausto morirà nel 1960, lei, Giulia, la “dama bianca”, sarà allontanata dalla camera di ospedale, secondo una consuetudine perenne sia prima che dopo la morte del campionissimo: se non regolarizzati in carta da bollo, gli affetti non esistono.
Nasce il 1960 e muore il campionissimo. È un paradosso significativo, a pensarci bene: con lui se ne va il dopoguerra. Il dopoguerra (ri)costruito in sella alle biciclette, perché altro non c’era per muoversi su quanto restava delle strade sulle quali aveva passeggiato la follia dell’uomo per cinque anni consecutivi. Con lui vanno a tramontare le immagini delle salite eroiche del Giro d’Italia e dei corridori con le camere d’aria incrociate sul petto, le facce sudate e scure di polvere e abbronzatura. Con lui si spegne la rivalità con Bartali: due mondi contrapposti ed esaltati nelle discussioni nei bar, tra un caffè corretto al mistrà e una carta da briscola piegata a capannina e schiantata sul tavolino di legno a chiudere l’ultimo punto. Coppi contro Bartali, come Togliatti contro De Gasperi: il mondo della trasgressione, del superamento di schemi e regole contro la conservazione di quel tutto. Ben sapendo come e quanto quel tutto potesse essere facciata e non palazzo, forma e non sostanza. Chi criticava le scelte di Fausto, chi non raccontava ai bambini-adulti chi era la “dama bianca”, sognava di nascosto quello scandalo, temendo lo scandalo al sole. Semmai fosse capitata a qualcuno una vicenda simile a quella del campionissimo, bene sarebbe stato lasciarla nell’ombra del silenzio e del nascosto.

Operazione Mangusta. Si cambiava decennio, si guardava al futuro, si viveva il boom economico con la lira stimata dal Financial Times «una delle più forti valute del mondo», ma quel 1960, anno bisestile e bifronte, era sufficientemente antico in quanto a costume e a morale. Un salto in avanti di un anno: 28 novembre 1961. La Corte Costituzionale afferma la costituzionalità dell’art. 589 del codice penale: è punito il solo adulterio della moglie. Secondo la Corte la norma non viola il principio di uguaglianza, in quanto nelle intenzioni del legislatore è «volta a tutelare l’unità della famiglia, turbata secondo il sentire comune più dalla infedeltà della moglie che non da quella del marito». È l’anno in cui si intuisce in qualche modo il cambiamento: Gagarin va nello spazio (ed è il 12 aprile), l’America sperimenta i missili Polaris (sono lanciati dal sottomarino Nautilus), l’Unione Sovietica fa esplodere un’altra sua bomba atomica. E poi ancora è l’anno del muro di Berlino, dell’operazione “Mangusta” perché gli Stati Uniti possano far cadere il regime di Fidel Castro a Cuba (la Baia dei Porci), con uno scambio di cortesie fra America e Unione Sovietica a far vedere come la guerra fredda sia sempre più calda, con il rischio di diventare bollente e senza controllo. Bollente al calor atomico. In Italia si affermano urlatori e cantautori, insomma sembra veramente in arrivo il cambiamento annunciato con il finire degli Anni Cinquanta. Ma non era così semplice. Perché se da una parte letteratura, cinema e lo stesso spettacolo alludevano a una certa emancipazione dei costumi, dall’altra i costumi erano castigati e – soprattutto – castigabili.
Aiché Nanà, nel 1958, era stata condannata per atti osceni, così come la maggior parte della classe dirigente tendeva a coprire con mutandoni metaforici e mentali le oscenità vere o presunte. Oscar Luigi Scalfaro – narra la leggenda, nemmeno poi tanto tale – pare facesse una scenata a una signora un po’ troppo discinta in un locale. E questa vena censoria e catoniana ispirava le sentenze della magistratura. In primo piano la donna. «Donna, tutto si fa per te» cantava il Quartetto Cetra in Un trapezio per Lisistrata: musica di Gorni Kramer e commedia musicale indimenticabile di Garinei e Giovannini. Era il 1958 e, a parole, tutto si faceva per la donna. «Donna, tutto si fa per te,/ tutto, pur di piacere a te./Tutto per un sorriso/e per un sì e per un no, per te./Perché sei donna, gioia di vivere,/donna, favola splendida./Sei tu, solo tu, quel desiderio che l’uomo chiama amor». Che dichiarazione d’amore! E si proseguiva così: «Donna, tutto si fa per te, tutto, pur di piacere a te. Tutto per un sorriso e per un sì e per un no, per te. Perché sei donna, nata per farti amar, donna, nata per dominar. Sei tu, solo tu, quel desiderio che l’uomo chiama amor». Ma la realtà era altra rileggendo le pagine dello scandalo al sole del campionissimo. Lui avrebbe anche potuto fare tutto, mentre per lei non era la stessa cosa. Anzi, se per caso le fosse mai scappato un tutto totalizzante erano dolori veri. Perché vigeva anche per legge il sistema di pensiero grazie al quale in fin dei conti l’uomo è cacciatore e all’uomo si può perdonare la scappatella extraconiugale. Ma a lei no: a lei no di certo. Per lei è tutta un’altra storia. Guai se lei si fosse mai concessa una scappatella, al di fuori del matrimonio: era reato, reato penale. Con tanto di processo nel quale esibire prove cui avrebbe fatto seguito la condanna.

I letti riscaldati. Fra le prove, la più singolare era quella del “letto caldo”. Immaginiamo la scena: c’è la denuncia (valevano anche le denunce anonime), cui seguiva un’irruzione delle forze dell’ordine per prendere i fedifraghi in flagranza di reato. E, se mai gli amanti fossero riusciti a rivestirsi tentando di occultare le prove dell’adulterio, valeva la prova del letto caldo: cioè un pubblico ufficiale avrebbe poggiato la sua mano sulle lenzuola sfatte e se avesse riscontrato un tepore (ovviamente umano) avrebbe messo a verbale questa sensazione, sufficiente a inguaiare la donna. Anche se per riscaldare il letto era indispensabile la collaborazione dell’uomo. Ma per lui, un richiamo semplice e un invito più o meno diretto a riscaldare altri letti, non senza invidia da parte dell’inquirente.


(fine prima parte, continua)