Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 12/7/2013, 12 luglio 2013
TREASURY-BUND, QUANDO LO SPREAD TORNA «NORMALE»
L’esperienza spesso traumatica degli ultimi due anni ci ha insegnato a diffidare degli spread sui titoli di Stato che aumentano. Non è però sempre detto che un rapido distacco fra rendimenti di due Paesi debba essere necessariamente associato a tensioni sul mercato, a movimenti fuori controllo oppure, per gli affezionati della teoria del complotto, alla speculazione più spregiudicata. Talvolta può invece essere il segno di un ritorno a una «normalità» che si pensava perduta, del fatto che gli investitori tornano a considere i «fondamentali», senza altre interferenze di sorta.
Prendiamo per esempio lo spread fra il Treasury, il titolo di stato statunitense e il Bund tedesco. Sulla scadenza decennale i rendimenti registravano ieri una differenza di 96 punti base a «vantaggio» degli Usa, qualche giorno fa il differenziale aveva addirittura superato quota 100 per la prima volta da 7 anni. Un livello importante dunque, a maggior ragione se si tiene presente che due mesi fa si girava ancora attorno ai 40-50 punti base e che a gennaio i tassi viaggiavano quasi appaiati, ma che non per questo allarma Washington, né Berlino.
Il motivo è semplice: se si guarda alla crescita economica, cioè all’elemento che più di ogni altro dovrebbe guidare i rendimenti dei titoli a lungo termine come i decennali, non esiste alcuna ragione plausibile per cui questo spread non debba salire. Dopotutto, pur essendo senza dubbio la locomotiva d’Europa, la Germania appare sbuffante al cospetto degli Stati Uniti, come hanno rilevato questa settimana anche gli esperti del Fmi fissando le proiezioni per il Pil 2013 nei due Paesi rispettivamente a +0,3% e +1,7%.
Certo, fino a qualche tempo fa delle variabili macro il mercato sembrava infischiarsene: erano soprattutto le mosse delle Banche centrali da una parte e le turbolenze sull’Europa dall’altra a dettare legge. Ora che gli Stati Uniti sembrano avviati a chiudere il rubinetto della liquidità con cui hanno «dopato» i listini (soprattutto i rendimenti dei Treasury), e che l’integrità dell’Eurozona non appare (almeno per il momento) più in discussione, la situazione torna appunto a normalizzarsi e il solco fra Washington e Berlino si allarga di nuovo.
Non è un caso, infatti, che lo spread Treasury-Bund sia tornato a crescere dopo che Ben Bernanke ha indicato la via d’uscita dal «quantitative easing». Ed è significativo che l’allargamento sia avvenuto in misura più marcata sul decennale che sulle scadenze più brevi (sul due anni la differenza è ancora attorno a 20-30 punti base), perché la Fed prima ridurrà gli acquisti di titoli (45 degli 85 miliardi mensili di dollari servono a comprare T-bond a lunga scadenza) e soltanto in un secondo momento tornerà ad alzare i tassi.
Nei prossimi mesi la distanza fra Usa e Germania potrebbe facilmente aumentare, non solo per questioni macro. In caso di rinnovate tensioni sui listini è verosimile infatti che il principale rifugio per gli investitori sia il Bund, anziché il Treasury frenato dalla politica monetaria di Washington. «Don’t fight the Fed», ammoniscono da sempre i gestori, ed è probabile che gli investitori non ignorino le vecchie massime neppure stavolta. Non ci sarà però da allarmarsi più di tanto se Treasury e Bund si muoveranno nella stessa direzione (come hanno continuato a fare nell’ultimo mese), perché anche questo è un segno di «normalizzazione»: è l’andamento divergente più che l’aumento di uno spread la spia di un mercato inquieto.