Michela Tamburrino, La Stampa 12/7/2013, 12 luglio 2013
Essere figlia di un mito, essere figlia di Peter Brook non è mai stato un grosso problema per Irina
Essere figlia di un mito, essere figlia di Peter Brook non è mai stato un grosso problema per Irina. In sostanza, se ne frega. Sorriso aperto, stretta di mano decisa, ha la bellezza acqua e sapone di una tipica attrice americana, anni 70, un po’ alla Gena Rowlands, con un che d’intellettuale nient’affatto costruito. Attrice lo è stata e si guarda bene dal rimpiangerlo («Ore attaccata al telefono aspettando la telefonata che non arriva») ora è regista seguendo un suo ideale di teatro, compassionevole, attento ai valori dell’uomo, anche onirico. [...] Che le ha insegnato suo padre? «L’umanità e un forte senso dell’umorismo, un tratto che in lui è spiccatissimo. Lo ha raffinato negli anni e nei tanti spettacoli, molto divertenti. È una caratteristica familiare, i miei sono molto inglesi, nascondono sotto l’umorismo il loro pensiero più profondo». Come è cresciuta Irina Brook? «In viaggio, con compagnie di attori miste, iraniani, giapponesi, erano gli Anni 70, c’erano gli hippy». Contento suo padre del mestiere in comune? «Era felicissimo che non facessi più l’attrice, in perenne attesa di trovare lavoro. Così abbiamo cambiato il tipo di rapporto, più scambi intellettuali, più discussioni. Poi con gli anni sono arrivate le critiche e io non le sopporto le critiche. Sapevo che mi diceva cose giuste, di gusto, però non era il mio gusto e volevo essere indipendente». Allora non c’è speranza di vedere una vostre doppia regia? «Per carità, idea terrificante. Una volta ho fatto una regia con il mio ex marito. Infatti è un ex».