Francesco Manacorda, La Stampa 12/7/2013, 12 luglio 2013
«SERVONO NUOVE ALLEANZE PER CRESCITA E OCCUPAZIONE»
«Vanno benissimo tutte le misure immediate per contrastare l’emergenza, ma il problema dell’occupazione nel medio-lungo periodo si affronta solo puntando sulla crescita; una crescita diversa da quella a cui siamo stati abituati fino a qualche anno fa e che dopo la crisi deve lasciare le spinte individualiste per puntare su nuove alleanze, su una maggiore coesione». Mauro Magatti insegna Sociologia alla Cattolica di Milano ed osserva con attenzione i fenomeni all’incrocio tra la nostra vita economica e quella comunitaria. Sul tema del lavoro «mi lasci dire prima di tutto una cosa che forse è banale, ma che molti dimenticano. Noi parliamo sempre della situazione italiana, ma siamo di fronte ad entità tutt’altro che omogenee: da una parte abbiamo il Nord industrializzato, che si allunga fino a certe aree del Centro Italia; dall’altra il Sud. Il paradosso è che oggi la crisi si sente più al Nord, dove le condizioni economiche sono generalmente migliori, che non al Sud dove gran parte dell’economia è ancora legata a trasferimenti pubblici che alimentano anche un forte welfare familiare».
Dove bisogna muoversi, secondo lei, per creare lavoro?
«Penso che ci siano alcuni grandi filoni su cui bisognerebbe concentrare l’azione del governo. Il primo filone riguarda quelle imprese - specie piccole e medie, visto che la grande fabbrica quasi non esiste più che esportano e che anche in questi anni hanno visto crescere il fatturato. Sono aziende che hanno la gran parte del loro mercato all’estero, ma che mantengono un forte legame con il territorio di appartenenza. E dunque bisogna creare le condizioni favorevoli perché, se e quando vogliono investire, lo facciano in Italia».
Le imprese, però, chiedono flessibilità nel lavoro. I sindacati replicano che così si alimenta la precarietà...
«La flessibilità va bene, ma deve essere una strategia di sistema, non si può scaricarla tutta sul lavoro. Bisogna andare da una formazione in grado di far entrare presto e bene le persone all’interno del processo produttivo al ruolo degli enti locali nel ridisegnare i tempi di lavoro e i servizi ad essi collegati. In questo modo la flessibilità non diventa solo flessibilità del lavoratore, che sennò finisce per identificarla con la precarietà».
Chi spinge per la flessibilità in ingresso, come ha fatto su queste colonne il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca, guarda all’esempio tedesco. Lei che opinione ne ha?
«La Germania oggi ha tante responsabilità in Europa, ma certo ha saputo attraversare un periodo complesso della sua storia disegnando un’economia e una società capaci di creare valore. Penso al tema dell’istruzione tecnica, ai rapporti collaborativi tra impresa e sindacati che rappresentano proprio una di quelle nuove alleanze necessarie nel mondo post-crisi, ma anche all’attenzione per l’energia».
Fin qui siamo alla manutenzione e allo sviluppo dell’esistente. Dove vede campi nuovi per creare occupazione?
«Bisogna avere il coraggio di avviare riforme, e intendo sostanzialmente progetti di liberalizzazione, specie nei servizi alle persone. In questo modo si sblocca quell’economia sociale che in Italia non è mai nata e che in altri Paesi, ad esempio la Gran Bretagna, è invece oggi uno dei settori dove l’impiego cresce di più. Nella cura degli anziani, nella sanità, nell’istruzione c’è possibilità di creare molti lavori, anche se con stipendi relativamente modesti».
Una vera rivoluzione per un Paese abituato a un forte welfare pubblico...
«In Italia tutto il comparto dei servizi alla persona è stato vissuto in una chiave fortemente ideologica, con i difensori del servizio pubblico senza se e senza ma. Invece questo è un settore che potrebbe dare molta occupazione e migliorare i servizi offerti: da un lato è uno dei pochi che resta legato al territorio e non si può delocalizzare, dall’altro è difficile che nel prossimo futuro si assista in questo campo a balzi di produttività che richiedano meno lavoro».
Resta il fatto che oggi molti servizi alla persona sono appannaggio degli immigrati. Non sembrano lavori che interessano agli italiani.
«Abbiamo anche messo in testa ai nostri giovani idee sbagliate o irrealizzabili. Imparare a far star meglio una persona che ha bisogno è un mestiere con una sua tranquilla dignità. Questo, ovviamente, a patto che ci sia un mercato funzionante e si assicurino retribuzioni adeguate».
Dalla crisi, lei dice , si uscirà solo più uniti. Eppure oggi la difficoltà economica divide più spesso di quanto unisca.
«La coesione non ha solo un aspetto sociale, ma anche economico. Fino al 2008 il mondo era un mare nel quale bastava mettersi in scia nella corrente fortissima della finanza per andare avanti. Adesso che quella corrente non c’è più, o almeno non è così forte, torna il problema di come crescere. Ma oggi crescere e creare valore significa ad esempio rendere più efficienti i servizi pubblici che distruggono risorse invece di crearle e sostituire alle spinte individualistiche una nuova razionalità che sia di sistema e collettiva».