Yu Shicun, Limes: Quel che resta della terra, Gruppo Editoriale L’Espresso, n. 2, 2012, 11 luglio 2013
GLI SCHIAVI DEL PIL, OSSIA L’INFINITO PIACERE CINESE DI COMBATTERE LA NATURA
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1. All’inizio del secolo scorso, il filosofo inglese Bertrand Russell disse che in Cina vigeva una libertà simile a quella di cui godono le creature che abitano una giungla: da qui la sua idea della società cinese come, appunto, «jungle-society». Oltre cent’anni dopo, le modalità dell’attuale sviluppo economico cinese ricalcano fedelmente le forme di appropriazione rapace ed accumulazione sfrenata proprie del capitalismo occidentale ai suoi albori.
A partire dagli anni Ottanta, la Cina ha progressivamente consolidato il suo ruolo di «catena di montaggio» dell’economia mondiale. A tutt’oggi la sua tecnologia, il suo mercato dei capitali e la sua produzione industriale sono fortemente dipendenti dall’apporto esterno (soprattutto statunitense), senza il quale lo sviluppo economico cinese degli ultimi vent’anni non avrebbe assunto il suo carattere travolgente.
Al decollo industriale contribuisce però anche un fattore interno, su cui l’Impero di Mezzo fonda in notevole misura le sue ambizioni di ascesa economica e potenza regionale: la demografia. Non solo i cinesi sono tanti – circa un miliardo e trecento milioni, secondo le stime correnti – ma, negli ultimi 15–20 anni, sono stati protagonisti di una migrazione interna che, per estensione e rapidità, storicamente non trova paragoni nemmeno in eventi come l’espansione verso est dell’impero romano, le invasioni mongole o, più recentemente, la colonizzazione del Nordamerica e la riorganizzazione dell’Europa nel secondo dopoguerra. Attirati dal miraggio del lavoro in fabbrica o nell’edilizia, milioni di cinesi lasciano le campagne per le città. Nel 1980, la popolazione urbana cinese era il 19% del totale, pari a circa 200 milioni di persone; nel 2005 tale percentuale è salita al 36% (500 milioni di persone) e secondo le stime nel 2010 si attesterà ad oltre il 40%. Centinaia di milioni di contadini, che reclamano impazienti un posto al banchetto della modernizzazione cinese, costituiscono l’ancora immensa riserva di questo incessante fenomeno.
Al contempo, tuttavia, queste stesse dinamiche demografiche e il ritmo forsennato dello sviluppo industriale sollevano pressanti interrogativi circa la sostenibilità ambientale del decollo economico cinese. Sia in Cina che nella comunità internazionale cresce il numero di coloro che, sulla base di una crescente mole di dati scientifici ed «evidenze empiriche», puntano il dito sull’enorme costo ambientale pagato dalla Cina al suo sviluppo. Uno sviluppo che, proprio a causa del suo impatto ecologico devastante, potrebbe rivelarsi effimero e, in ultima analisi, autodistruttivo.
L’inquinamento ambientale in Cina è un fenomeno di dimensioni colossali. Secondo la Banca mondiale, il costo economico dell’inquinamento di acqua e d’aria sfiora annualmente l’8% del pil cinese, mentre il costo complessivo dei fenomeni di degrado ambientale arriva a sfiorare il 15% del pil (soglia che alcuni collocano addirittura al 20%): in media, il 7% in più della media dei paesi industrializzati. In breve tempo la Cina è così diventata il maggior inquinatore a livello mondiale. È il maggior produttore di sostanze dannose per l’ozono, e in quanto tale è in gran parte responsabile del riaffacciarsi del buco dell’ozono su Tibet e regione antartica, dopo i miglioramenti registratisi con il bando dei gas Cfc di fine anni Ottanta. Per soddisfare il suo crescente fabbisogno energetico, Pechino usa in gran parte combustibili fossili (in particolare il carbone). Pertanto figura come secondo produttore di gas serra dopo gli Stati Uniti, ai cui livelli di emissioni si sta rapidamente avvicinando. La Cina è poi il maggior produttore e utilizzatore di pesticidi a livello mondiale, e l’abuso di anticrittogamici e fertilizzanti nelle coltivazioni è pratica comune.
Oltre che per le sue dimensioni, il deterioramento ambientale cinese si caratterizza per la sua onnicomprensività, dal momento che nessun ambito ne risulta escluso. Il Rapporto sulla protezione dell’ambiente in Cina, pubblicato nel giugno 2005 dall’Ente nazionale per la protezione ambientale, rivela che nella maggior parte delle 500 città cinesi monitorate la qualità dell’aria è scadente e in un quinto di queste l’inquinamento atmosferico raggiunge livelli critici. Tali risultati confermano la situazione dell’anno precedente, in cui solo il 38,6% delle città prese in esame presentava una qualità dell’aria in linea con gli standard legislativi. Una delle manifestazioni più estreme – ma niente affatto rare – dell’inquinamento atmosferico è rappresentato dalle coltri di smog presenti su tutte le maggiori aree urbane del paese. Nella zona del delta del fiume Zhujing, il fenomeno delle coltri di smog è ormai una costante durante l’intero arco dell’anno ed è assurto ad emergenza meteorologica permanente. In base ai dati dell’Istituto cinese per la pianificazione ambientale, ogni anno circa 300 mila cinesi rimangono vittima dell’inquinamento atmosferico in zone aperte ed oltre 100 mila sono uccisi dall’aria inquinata respirata in ambienti chiusi. Il che porta a circa 400 mila le vittime annuali di questa sola forma di inquinamento.
Per quanto attiene allo smaltimento dei rifiuti, in base al summenzionato studio del 2005, ben 155 città sulle 500 monitorate hanno meritato uno «zero» alla voce «trattamento dei rifiuti urbani» e l60 hanno ottenuto il medesimo punteggio con specifico riferimento allo smaltimento dei rifiuti organici, che nella maggior parte dei casi finiscono in fiumi e laghi senza alcun trattamento.
L’inquinamento delle acque minaccia sempre più la sicurezza dell’approvvigionamento idrico nazionale. Uno studio della Rand Corporation indica proprio nella crescente scarsità e contaminazione delle acque la maggior incognita gravante sullo sviluppo economico cinese. Già oggi l’inquinamento idrico pesa per l’1,5-1,9% del pil, più dell’aumento dei costi energetici. Se in uno dei suoi primi articoli l’economista Zhou Qiren poteva affermare che l’acqua usata dai cinesi negli anni Ottanta era in gran parte potabile, oggi in molti casi quella stessa acqua può essere usata tutt’al più per lavare i piatti. In base ad uno studio della commissione per la Protezione dell’ambiente urbano cinese e ai dati del ministero dell’Edilizia, sono 297 le città cinesi a possedere impianti di trattamento delle acque reflue. Peccato che dei quasi 300 impianti censiti, un terzo funzioni sporadicamente e un altro terzo non abbia mai funzionato, soprattutto a causa di mancanza di fondi (sovente conseguenza di piani di tariffazione inefficienti) e scarsa o nulla manutenzione. Come risultato, 193 delle 500 città prese in considerazione dal Rapporto sulla protezione dell’ambiente del 2005 si sono aggiudicate uno «zero» alla voce «trattamento delle acque di scarico» .
A marzo del 2006, il quotidiano China Daily, citando dati del ministero delle Risorse idriche, riportava che 360 milioni di cinesi non hanno accesso all’acqua potabile e che oltre il 70% dei bacini fluviali del paese risultano inquinati. Questo spiega gli oltre 2 milioni di casi di avvelenamento da arsenico finora accertati e il parallelo, forte incremento delle patologie tumorali legate all’assunzione di questo agente inquinante. Una recente indagine a campione svolta dall’Ente di protezione del fiume Huanghe, ha rivelato che oltre il 70% dell’acqua per usi umani prelevata da questo fiume e dai suoi affluenti non rispetta gli standard minimi di potabilità. Nel 2004, città come Shizuishan, Baotou e Sanmenxia, situate nel medio ed alto bacino dello Huanghe, hanno registrato una qualità dell’acqua«pessima» per 365 giorni consecutivi. Per millenni, grandi fiumi come lo Huanghe o il Chiang Jiang sono stati considerati alla stregua di divinità dai milioni di cinesi che vivono nei loro bacini e da essi dipendono per la loro sussistenza; ma oggi tali fiumi, come la maggior parte dei corsi d’acqua cinesi, sono ridotti a cocktail di veleni. Nessun fiume cinese può dirsi oggi completamente pulito, al punto che su giornali e televisioni le storie di interi villaggi colpiti da patologie cancerogene a diffusione quasi epidemica non fanno più notizia.
Altro caso emblematico è quello del Grande Canale che unisce Pechino ad Hangzou, immensa opera idraulica la cui ultimazione risale al 610 d.C., sotto la dinastia Sui. Qui il livello di inquinamento ha raggiunto livelli intollerabili in seguito ad un’imponente opera di diversione delle acque, che ha ridotto del 26% la portata del basso corso del canale, facendo così schizzare la concentrazione di agenti inquinanti. Il risultato è che, da mediocre, l’acqua di questa arteria vitale è divenuta imbevibile, fornendo nuovi argomenti a coloro che indicano nelle acque del Tibet l’unica risorsa idrica affidabile rimasta alla Cina.
Per quanto riguarda le falde acquifere sotterranee, un recente studio condotto su 188 medie e grandi città cinesi ha evidenziato che il 64% delle acque sottostanti le aree urbane è pesantemente inquinato, mentre il 33% lo è in misura minore. Zhao Zhangyuan, ricercatore dell’Istituto di scienze ambientali, ha evidenziato il collegamento tra gli alti livelli di inquinamento delle acque e il rapido aumento di una vasta gamma di patologie, tra cui tumori maligni, infezioni di organi interni, nascita di bambini affetti da ritardi psicomotori, malattie vascolari, diabete.
Le dimensioni degli squilibri ambientali cinesi fanno peraltro sì che questi, sovente, travalichino i confini regionali e nazionali, per investire più o meno direttamente altre aree del globo. Nel caso della problematica idrica, il Global Environment Outlook 2004/2005, pubblicato dall’Unep (United Nations Environment Programme), sottolinea come il rapido deterioramento del fiume Yili costituisca la principale causa del progressivo prosciugamento del lago Balkhash, in Kazakistan, a tutt’oggi il secondo bacino lacustre dell’Asia centrale. Altro esempio: il 13 novembre 2005, in seguito ad un incidente in un’industria chimica di Jilin, 100 tonnellate di benzene si riversano nel fiume Songhua. In breve tempo, la corrente del fiume porta il suo carico di veleni fino alla città cinese di Harbin (dove oltre 3 milioni di persone rimangono senz’acqua per quasi una settimana, in una delle maggiori emergenze idriche della Cina) ed oltre, fino in territorio russo, contaminando campagne ed insediamenti urbani per centinaia di chilometri quadrati.
Il bradisismo – il progressivo sprofondamento delle aree urbane per effetto della iper-cementificazione — è un altro aspetto dell’emergenza ambientale cinese. In base ad un recente studio, che ha messo a confronto i dati sulle risorse idriche sotterranee cinesi con quelli del citato Rapporto 2005 sulla protezione dell’ambiente, il fenomeno in questione (ed i connessi eventi tellurici) interessa oltre 50 città cinesi, per una superficie complessiva di oltre 940 mila km quadrati. In queste aree, lo studio ha contato 180 casi di sprofondamento del suolo cittadino e parallela emersione di acque carsiche, che insieme hanno interessato un’area di quasi 200 mila kmq. Sono 1.400 i casi di collasso di strutture edili direttamente riconducibili a questi fenomeni, e il problema peggiora di anno in anno. Il caso emblematico, al riguardo, è Shanghai. A partire dai primi anni Novanta, il vertiginoso aumento dei grattacieli – unitamente all’intenso sfruttamento delle falde sotterranee – ha sottoposto il suolo ad una pressione enorme. Risultato: la città sprofonda di un centimetro all’anno, pregiudicando gravemente l’assetto delle infrastrutture di superficie (palazzi, strade, ponti) e, ancor più, di quelle sotterranee (reti di servizio, metropolitane, gallerie autostradali). Problemi non dissimili si registrano nell’area urbana di Bohai e nel delta dello Zhang Jiang, dove l’area soggetta a bradisismo si estende per quasi 10 mila kmq.
Man mano che dalle zone costiere le attività industriali si estendono verso l’interno, il livello di inquinamento – specialmente idrico – delle aree rurali aumenta sensibilmente. La quasi totalità dei fondi pubblici spesi annualmente per la lotta all’inquinamento va infatti alle grandi aree urbane ed industriali, mentre le campagne, pur interessate da crescenti fenomeni di industrializzazione, non ricevono pressoché nulla. Paradossalmente le zone rurali, che per effetto della migrazione di forza lavoro verso le città si sono trasformate in un serbatoio di popolazione bisognosa di tutele e assistenza (anziani, malati, donne sole), sono quelle che meno ricevono in termini di protezione sociale e ambientale. Così la millenaria campagna cinese, tradizionalmente povera, diviene il ghetto degli esclusi dalla modernizzazione del paese, di cui sopporta il crescente impatto ambientale senza tuttavia condividerne i benefici socioeconomici. Erigendo enormi dighe (la più mastodontica delle quali, la diga delle Tre gole sul fiume Yangtze, è appena stata ultimata), l’approvvigionamento idrico di molte città è migliorato, a discapito però della qualità e quantità dell’acqua disponibile nelle zone rurali. Seppellendo gigantesche quantità di rifiuti, i centri urbani sono finora risusciti a scongiurare l’emergenza sanitaria, ma a spese di vaste aree extraurbane ridotte a discariche, la cui estensione, al saturarsi dei siti di stoccaggio esistenti, aumenta costantemente. In sintesi, lo sviluppo e il miglioramento dell’ambiente urbano è ottenuto sacrificando le campagne, principali vittime del degrado ambientale.
2. La storia della modernizzazione cinese e dei disastri ambientali che essa porta con sé è molto spesso storia di aspri conflitti sociali, che vedono contadini ed operai contrapporsi allo strapotere di autorità pubbliche ed investitori privati, nella difesa dei loro diritti elementari. Quello dei diritti conculcati è da sempre un tema scottante per i media cinesi, specialmente quando il dissenso sociale, represso per anni, sfocia in aperta rivolta, sfuggendo di mano alle autorità. È il caso, ad esempio, della campagna appena fuori Jiaxing, nella provincia dello Zhejiang. Per più di un decennio, le industrie altamente inquinanti della città di Shengzi, situata nella provincia di Jiangshu, hanno riversato nei fiumi enormi quantità di agenti inquinanti, contaminando pesantemente le aree rurali intorno a Jiaxing. Sono 150 mila le vittime accertate di questo avvelenamento di massa, 800 mila quelle costrette a bere – a loro insaputa – acqua inquinata, innumerevoli i casi di cancro, malformazioni alla nascita, infezioni epidermiche, patologie della milza e del fegato, che colpiscono soprattutto i giovani. Nella parte settentrionale dell’area in questione, il reclutamento militare è divenuto impossibile, in quanto solo 1 su 130 uomini in età di leva passa le prove mediche di routine. Alla fine i contadini, autotassatisi, hanno ostruito con blocchi di cemento uno dei fiumi maggiormente inquinati, deviandone il corso per attenuarne l’azione contaminante. Che il tutto sia avvenuto con il tacito avallo delle autorità locali, dà la dimensione della gravità del problema.
Vicende come quella di Jiaxing, tuttavia, sono piuttosto rare. Molto più frequenti i casi di investitori privati che, con la complicità di autorità locali corrotte, tengono sotto scacco intere comunità rurali. Nel suo celebre Ch’ang ho (Il lungo fiume), il famoso scrittore cinese Shen Congwen descrive una splendida «città sulla riva del fiume Qingshui», nella parte occidentale della provincia dello Hunan. A partire dalla metà degli anni Novanta, l’industria mineraria si è sviluppata rapidamente nella regione, che si è guadagnata l’appellativo di «triangolo d’oro del manganese». Nemmeno a dirlo, il Qingshui si è trasformato in un concentrato di veleni. Da allora, centinaia di migliaia di persone che abitano la città e le quattro contee gravitanti sul fiume hanno bevuto a loro insaputa acque contaminate, sviluppando calcoli ai reni e al fegato, tumori e altre patologie. Centinaia di migliaia di ettari di terre arabili sono stati pesantemente inquinati e molti contadini si sono visti costretti a lasciare le risaie altamente produttive per terre asciutte, con conseguente tracollo del loro reddito. Ad oggi, non si intravede soluzione al problema e sono in molti a sostenere che l’unica via d’uscita sia il ricorso alla violenza. Per i contadini, tuttavia, tale opzione è estremamente rischiosa. Le armi circolano con facilità nella regione e i primi a possederne in quantità sono gli stessi industriali, che appaiono tutt’altro che restii ad usarle. Tempo fa Long Weixing, direttore di una locale agenzia di Protezione ambientale, ordinò la chiusura di alcune piattaforme industriali. Alcuni giorni dopo, gli venne recapitata una lettera contenente due proiettili. Da allora, le piattaforme sono tornate in piena attività.
Questi metodi stanno rivelando i loro limiti di fronte al drastico peggioramento delle condizioni ambientali. Al progressivo deterioramento dell’ecosistema e della condizione sociale delle comunità rurali, corrisponde infatti un’intensificarsi della conflittualità. Il numero degli scontri ha subito un’impennata a partire dal 1997, con un tasso d’incremento annuo del 25%. Nel 2002, il numero complessivo di episodi registrati ha superato la cifra astronomica di mezzo milione. Tra i casi più eclatanti, quello verificatosi nell’ottobre 2004 nella contea di Hanyuan, una delle più povere del Sichuan, in cui una vasta sollevazione, sorta per l’irrisolta questione degli indennizzi ai contadini espropriati delle terre, ha tenuto impegnata la polizia per giorni. Il 10 aprile 2005 è stata la volta della contea di Dongyang, nella provincia di Zhejiang, teatro di violenti scontri tra contadini e polizia. Al grido di «ridateci la nostra terra, il nostro cibo, la nostra natura e la nostra salute», la popolazione – dopo anni di inutili appelli – si è ribellata alla presenza di un gruppo di industrie chimiche altamente inquinanti, difese dalle autorità locali. Sul livello di affidabilità di queste ultime, valga per tutti l’episodio accaduto il 16 dicembre scorso nella città di Beijiang, nel Guandong, dove una locale industria chimica ha riversato accidentalmente ingenti quantitativi di cadmio nell’ambiente, nonostante i suoi impianti fossero classificati ad alta sicurezza ambientale.
Gli episodi descritti sono solo l’aspetto più eclatante della vasta e crescente conflittualità che oppone comunità rurali a gruppi di interesse, città a campagna, governo centrale ad amministrazioni locali (normalmente dedite al perseguimento dell’interesse di pochi a danno del benessere collettivo). Per dirla con un detto cinese, governo centrale ed autorità locali si comportano come «un padre che non mostra scrupoli nel vendere la terra di suo figlio».
Un giornalista della rivista Min Jian ha scritto: «Sono nato in un paesino bagnato da un ruscello le cui acque limpide si riversavano nel lago Hong, popolato da banchi di pesci e colonie di gamberi, molluschi e distese di conchiglie. Negli anni Ottanta il corso del ruscello è stato deviato; fertilizzanti e pesticidi, hanno ucciso la fauna ittica, l’acqua è diventata fetida. La gente si è ammalata, soprattutto di fegato, e molti sono morti. Il villaggio pian piano si è spento, come il fiume che lo nutriva».
3. Il processo che sta trasformando la Cina nella «discarica del pianeta» – come recentemente affermato da Pan Yue, direttore dell’agenzia di Stato per la Protezione ambientale – ha il suo inizio nell’era di Mao Zedong, la cui dottrina enfatizzava «l’infinito piacere di combattere contro la natura». Da allora, l’ecosistema cinese è stato oggetto di una sistematica opera di distruzione. Negli anni del «Grande balzo in avanti», la deforestazione su vasta scala è andata di pari passo con l’impianto di centinaia di migliaia di altiforni «domestici» alimentati a carbone, dal forte impatto ambientale. Durante la campagna di incremento della produzione agricola, l’intenso sfruttamento dei terreni ha determinato gravi fenomeni di erosione, cui si sono aggiunti i pesanti effetti dell’incessante costruzione di dighe (con oltre 1.900 impianti di grandi dimensioni ed un numero imprecisato di dighe minori, stimato in decine di migliaia, la Cina è prima al mondo per numero di invasi artificiali, la cui capacità totale sfiora i 500 miliardi di metri cubi).
All’inizio degli anni Settanta, le autorità cinesi mostrano segni di apparente ravvedimento. Nel 1972, la Cina partecipa alla prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, dopo la quale Pechino sembrava aver finalmente capito l’importanza di salvaguardare l’ambiente. Nel giugno del 1973, sotto gli auspici dell’allora premier cinese Zhou Enlai, si tiene a Pechino la prima conferenza nazionale sulle tematiche ambientali, foriera di una nuova «coscienza ecologica» ostentata dal governo centrale durante il successivo ventennio di progressiva apertura all’Occidente. Vessillo del nuovo corso è la creazione dall’Ufficio nazionale per la Protezione ambientale, da cui, nel 1998, scaturisce l’omonimo Ente, che sovrintende all’esecuzione del centinaio fra leggi e regolamenti in materia ambientale sinora sfornato dal governo. Oggi la Cina è parte di numerose convenzioni internazionali sull’ambiente, come la Convenzione sulla biodiversità o gli Obiettivi del millennio (orientati al perseguimento di uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile).
Ma se questa è la linea ufficiale, perché la Cina rischia ogni giorno di più di soccombere ai propri squilibri ambientali? Perché l’approccio delle autorità al problema dell’inquinamento rimane saldamente ancorato al principio del «prima inquina, poi – se possibile – risana» . Dietro l’ufficialità degli intenti e la pletora di organismi e norme a salvaguardia dell’ambiente, il criterio che orienta le scelte politiche a livello centrale e locale rimane, invariabilmente, la crescita del pil. Ogni altra considerazione, conseguenze ambientali incluse, viene dopo. Anche perché la non democraticità delle corrotte istituzioni cinesi le rende irresponsabili verso i danni provocati ad ambiente e persone da politiche urbane ed industriali suicide.
Ciò contribuisce a spiegare come mai la pur grande, sovrappopolata ed economicamente dinamica India non viva un’emergenza ambientale paragonabile a quella cinese e perché, nonostante la gravita della situazione, la Cina non cerchi di tamponare almeno i fenomeni d’inquinamento più gravi, che minacciano di fendere inabitabili vaste aree del paese.
Paradossalmente, una via d’uscita potrebbe venire proprio dall’oggettiva insostenibilità del problema. Negli ultimi dieci anni, le autorità cinesi e la comunità internazionale hanno accumulato una mole impressionante di dati che certificano la rapidità e vastità del degrado ambientale in Cina. I dati scientifici trovano poi riscontro nell’esperienza quotidiana di milioni di cinesi e dei molti stranieri che vivono in Cina, colpiti direttamente dagli effetti del degrado.
Ma soprattutto, oltre ad avvelenare se stessa, la Cina sta contribuendo in misura crescente al deterioramento ambientale nel resto del pianeta. Nel suo Who will feed China (Chi sfamerà la Cina), il controverso Lester Brown ipotizza che in un futuro non troppo lontano la necessità di cibo e materie prime della Cina surclasserà la capacità produttiva mondiale. Per il 2031, le stime delle Nazioni Unite collocano la popolazione cinese ad 1,4-1,5 miliardi, con un reddito medio di poco inferiore a quello attuale degli Stati Uniti. Se questo scenario si realizzasse, il fabbisogno energetico della Cina si attesterebbe su circa 100 milioni di barili di greggio al giorno: quasi il 25% in più rispetto all’attuale offerta mondiale.
Per risolvere le enormi problematiche ambientali che l’affliggono, la Cina dovrebbe cercare fin d’ora valide alternative al proprio modello di sviluppo, basato su fonti energetiche non rinnovabili, industrializzazione massiccia, motorizzazione di massa e consumo esasperato di beni «usa e getta». Un modello che, se – finora – è andato bene per pochi paesi ricchi in un mondo complessivamente povero e arretrato, rischia di rivelarsi autodistruttivo per i paesi di recente industrializzazione (specialmente se delle dimensioni della Cina e dell’India), costretti a fare i conti con la pesante eredità ambientale di duecento anni di civiltà industriale occidentale.
La Cina dovrebbe dunque puntare a dotarsi di tecnologie che rendano ecologicamente meno onerosa la produzione energetica, la mobilità di massa (specialmente nelle aree urbane), lo smaltimento dei rifiuti, la produzione industriale e agricola e tutte le attività antropiche il cui attuale impatto ambientale minaccia lo stesso futuro del paese. Oggi la Cina ha l’occasione di dimostrare a se stessa e al mondo di non essere una «jungle-society».
* Tratto da Limes, Quaderno speciale «Tutti giù per terra», suppl. al n. 4-2006, pp. 37-44.